di Teresa Bigagli, psicologa, allieva IAFF al quarto anno di specializzazione
Per Lee Chandler il tempo non scorre più. Ha appeso alla colpa il suo intero destino; schiacciato sotto la responsabilità di un terribile errore, non chiede più niente alla vita. Un passato che non può essere dimenticato, un futuro ostruito e con esso ogni speranza, non lasciano possibilità al presente che diventa vuoto e freddo, fatto di cassonetti da riempire, neve da spalare, bagni da stasare, come se un tutto-fare potesse zittire, insieme al silenzio e agli sguardi evitati, le richieste sorde di un mondo che continua a muoversi.
Una vita sepolta in uno scantinato periferico di Boston, in cui il dolore rimane sotto, scava, traccia crepe ed esplode in rabbia improvvisa quando la punizione o la morte sembrano l’unica via di uscita. Lee incarna il dolore che immobilizza e condanna alla solitudine, ad una vita vuota, marginale e ripetitiva in cui ogni forma di intimità è evitata per paura di prendere il controllo emozionale.
Il regista ci lascia entrare nel film, attraverso l’emotività, non con il linguaggio, perché certi dolori sono indicibili. Kenneth Lonergan con delicatezza e rispetto delle emozioni e degli affetti più complessi, ci guida in un viaggio autentico di elaborazione del lutto, in cui la musica e il paesaggio riempiono vuoti laddove le parole non possono arrivare.
In nessun caso il dolore di un lutto può essere annullato, eliminato, ma solo accolto e trasformato. La speranza nel legame e nell’eredità affettiva è la chiave per riorganizzare il proprio posto nel mondo e tornare a sorridere.
La relazione con il nipote, Patrick, frutto di un legame fraterno profondo, costringe Lee al “ritorno a casa”. La fiducia e responsabilità che il fratello gli affida, impongono a Lee la necessità di tornare sul trauma passato, ma stavolta con il compito e la sfida di ricostruirsi e ricostruire la relazione. È dentro il legame, rinnovando il sentimento di appartenenza che diventa possibile attraversare il dolore ed ammettere la propria fragilità. “Non ce la faccio, mi dispiace” ed il primo vero abbraccio.
Dalla cura della fragilità compare con forza la possibilità di un futuro, diverso per lui e Patrick
perché diversi sono i loro bisogni e solo accettando e tutelando entrambi possono davvero
rimanere vicini.
Il tempo familiare si rimette in moto, il presente prende vita, la solitudine lascia spazio alla condivisione e apre uno spiraglio al piacere. È tempo del gelato e della pesca, è tempo di lasciarsi cullare dal mare, uno a fianco all’altro.
“La vicinanza è l’unica prospettiva per cui la perdita non è solo disperazione” (M.Andolfi).