di Giulia Tatulli, psicologa clinica e allieva di specializzazione al terzo anno IAF.F.
The “Tree of life” si presenta come la possibilità di vivere un tempo sospeso dalle vicissitudini operative della vita; Terrence Malick crea uno spazio di pensiero e di emozione capace di far riflettere sul significato personale dell’esistenza e del divino, lungi dall’irrigidirsi in una posizione semplicemente religiosa, che porta con sé la gioia del sentirsi vivi così come il dolore del non poterci essere, con o senza il corpo. Sta allo spettatore scegliere quanto abbandonarsi alla bellezza del mostrato o quanto seguire le tracce di un non detto ricco di suggestioni.
È la voce di un bambino, il figlio maggiore (Sean Penn), ormai adulto, che guida nella storia. Prima una cittadina, poi una famiglia: un padre autoritario (Brad Pitt), una madre amorevole (Jessica Chastain) e tre figli. Viene ripercorsa la nascita di una famiglia texana degli anni ’50. Dalla gioia di aver trovato qualcuno che incarnasse il senso del proprio dare e ricevere amore, alla nascita e alla crescita dei figli, fino alla notizia che stravolge la vita di ogni genitore, anche di quello che ha trovato nell’autorità e nel mancato riconoscimento dell’altro il modo per trasmettere il legame: la morte di un figlio.
A parlare non sono le parole, ma la forza delle relazioni espresse soprattutto attraverso immagini, sguardi, gesti, pensieri… questo crea un’atmosfera rara in cui lo spettatore può lasciarsi andare anche in un’esplorazione personale contenuta dal significato del film.
Le lontane galassie, la preistoria terrestre, gli infinitesimali meandri delle cellule, l’acqua in particolare e la natura in generale lasciano lo spettatore senza fiato di fronte alla meraviglia, alla sorpresa e alla potenza trasmessa. L’altra faccia della medaglia però può essere il senso di impotenza dell’essere umano, quell’impotenza che probabilmente anche di fronte ad una perdita diventa l’attore principale, almeno in un tempo dell’elaborazione del lutto. In questo sceneggiato quindi non manca la possibilità di emozionarsi; dalla gioia, in nome della vita e dell’amore, fino alla sofferenza pura e ingenua che soltanto gli occhi di un bambino probabilmente riescono a trasmettere così intensamente. Quando nella semplice espressione viene compresa la complessità, il bersaglio del cuore non può che essere colpito.
La rabbia e la sofferenza di non sentirsi né amati né protetti da parte dei figli, e quella di non essere visti e riconosciuti, neanche adesso, come degni genitori da parte degli adulti, in particolare del padre. Quei meccanismi di coppia che colludono con bisogni antichi che sembrano non trovare reale comprensione. L’unica liberazione per il padre forse è quella apparente di una trasmissione generazionale che però fa arrivare ai figli domande e dubbi rispetto alla possibilità di essere amato, alla bontà o cattiveria del genitore, al perché della sua e della propria esistenza e alla giustizia rispetto alla vita, terrena e non. Tutto questo trova come sottofondo che rincuora la voce della madre la quale promuove l’amore e il bene verso l’altro. Diventa interessante quindi la sfida di sentirsi figlio di entrambi nello stesso momento.
Quel dolore che appare essere l’unico modo per sentire vicino chi non c’è più si trasforma poi in possibilità di lasciar andare, affidare ed affidarsi, dopo essere riusciti a “stare”, a sostare, concedendosi uno spazio nella propria mente, nelle relazioni: dare voce alla vita.