a cura della dott.ssa Carla Ramita Susini, psicologa, psicoterapeuta, ex allieva IAFF.
Una donna ebrea chassidica di Brooklyn va a Berlino per fuggire da un matrimonio combinato e viene accolta da un gruppo di musicisti. Ma il suo passato la raggiunge.
Con:Shira Haas,Amit Rahav,Jeff Wilbusch
Creato da:Anna Winger,Alexa Karolinski
Miniserie Netflix in 4 puntate
C’è una soluzione alla tensione fra l’ Appartenenza e l’individuazione che non sia la fuga? Si può essere radicati e sradicati a un tempo, per non aver saputo trovare un compromesso tra il focolare e la diaspora?
Si può seguire le proprie inclinazioni, i propri sogni ed i propri desideri in un contesto di appartenenza rigido, senza tradire gli affetti che ci legano alle persone che ci hanno cresciuti?
A queste domande tenta di dare una risposta «Unorthodox», tratta dall’autobiografia di Deborah Feldman (Unorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidic Roots), che racconta di una diciannovenne ragazza ebrea, Esty , in fuga da un matrimonio combinato nella comunità ultraortodossa di Brooklyn.
La storia di «Unorthodox» inizia proprio lì, nella comunità ebraica ultraortodossa di Williamsburg.
Il movimento ultraortodosso segue in maniera rigidissima gli insegnamenti presenti nella Torah , promuove il mantenimento e l’uso della lingua Yiddish a scapito dell’inglese ed una netta distinzione tra ebrei e non, vedendo nella non appartenenza alla tradizione ebraica, la colpa punita da Dio con le diaspore, i pogrom e la Shoah.
Esty, la protagonista della serie, è una giovanissima adulta, unica figlia di un padre ubriacone e di una madre espulsa dalla comunità, e cresce sotto la guida della zia e della nonna, a cui è devotamente legata. Come tutte le altre donne della sua età Etsy è ormai in prossimità di un matrimonio combinato. Il suo sposo è Yanky Shapiro, giovane uomo anch’esso schiavo delle tradizioni e delle regole radicate nella sudditanza emotiva, che, in quel contesto, costituiscono il tessuto stesso del meccanismo di appartenenza.
La vita comunitaria, fortemente ritualizzata e regolata in ogni sua espressione, sembra disegnata per scoraggiare ogni tipo di individuazione. La scena del bagno e della rasatura completa del corpo prima del matrimonio sono meravigliose e terribili; l’attrice che interpreta Etsy, con le sue lacrime silenziose ci fa provare tutto il dolore dell’Io rifiutato per consentire ad un Noi indifferenziato di esistere.
Ma la passione per la vita è inevitabile e per questo più forte.
Di tutti i legami che tengono unita Esty alla comunità degli ebrei ortodossi che vive nel quartiere di Williamsburg, non ve n’è uno solo che non si allenti e non si spezzi sotto l’effetto della sofferenza creata dalla tensione tra l’anelito alla libertà ed all’espressione ed il mandato collettivo, che preclude alla donna qualsiasi attività o desiderio che non sia la cura della famiglia.
Con la complicità della sua insegnante di pianoforte e con le carte attestanti la cittadinanza tedesca, dono della madre, fugge a Berlino. Lì si riunisce alla madre stessa, alla quale era stata strappata da piccola, perché aveva osato divorziare dal marito e si riappropria di parte delle proprie radici.
Nel frattempo uno smarrito marito Yanky e il cugino «eterodosso» Moishe — incaricati dall’intransigente rabbino — sono sulle sue tracce per portarla indietro e, fallito il rapimento violento, non esitano a porle la scelta tra il ritorno a Williamsburg ed il suicidio.
Nella delicatezza del racconto, non c’è una divisone netta tra buoni e cattivi, nessuno viene demonizzato: alla fine, tutti i protagonisti scoprono di essere irrimediabilmente individui, con la propria formula per risolvere il paradosso tra appartenenza ed individuazione.
Mi ha particolarmente commosso la figura di Yanky, alla fine consapevole che nella moglie non vi è altro che un doloroso ma insopprimibile anelito alla libertà ed alla vita, ma schiacciato dalla paura e dal senso di colpa, non riesce che a tornare indietro nel nido rassicurante e soffocante della sua gente.
«Unorthodox» è storia di una rinascita, della forza della curiosità, della scoperta del sesso, in una Berlino bellissima dove le diverse culture e la musica rappresentano il sogno europeo, nel recupero di una appartenenza fatta propria, che come simbolo ha la gravidanza di Etsy.
Esty fugge come una clandestina a Berlino per rompere definitivamente con la sua vecchia vita. La scelta della capitale tedesca è fortemente simbolica, perché considerata il luogo del male assoluto, teatro dei crimini nazisti.
Ma se durante la Shoah il viaggio salvifico era verso l’America, qua si tratta dell’opposto. Per salvarsi Esty torna a Berlino trovando una città accogliente, moderna e artistica, lontana dall’immaginario tramandato nella sua comunità. Lì si inserirà in un gruppo di giovani musicisti cosmopoliti che la condurranno alla scoperta della città ma soprattutto di tutte le esperienze che la vita a Williamsburgh le aveva precluso.