Il regista Hirokazu Koreeda racconta la storia di una famiglia che si trova di fronte ad una scelta dolorosa attraverso lo sguardo di un padre.
Una telefonata dall’ospedale, dove sei anni prima è nato il figlio Keyta, porta ad una drammatica notizia che cambierà di colpo la loro vita: uno scambio nella culla.
I due coniugi sono posti di fronte ad un bivio, si trovano infatti a dover scegliere tra quello che fino ad allora avevano cresciuto come figlio, e il figlio biologico.
La sicurezza e la compostezza di Ryota, il padre, si infrangono di fronte ad una domanda: qual’è realmente mio figlio? Ma la riflessione che accompagna tutto il film è soprattutto cosa crei questo legame, è il sangue che lo rende tale o è la storia, le esperienze vissute insieme, che legano un bambino alla persona che se ne prende cura?
Quello che accade è un’occasione di riflessione per Ryota, che fino a quel momento è stato un freddo uomo in carriera con poco tempo da dedicare alla famiglia, molto centrato sui propri obiettivi e poco emotivamente sintonizzato con il figlio.
Diversamente dall’uomo, suo figlio Keyta ci viene mostrato come un bambino pacato e modesto, lontano da quelle che sono le grandi aspettative del genitore, che non riesce a vederlo nei suoi reali bisogni, mentre sogna per lui grandi traguardi.
Si intuisce da subito la difficoltà nell’accettare un figlio percepito come diverso da sé, così distante da sentirsi sollevato nel momento in cui viene svelato che non è sangue del suo sangue.
Il confronto tra le famiglie dei due bambini provenienti da diversi strati sociali e da differenti stili educativi, in particolare tra modi opposti di intendere la paternità, sarà centrale nell’innescare nell’uomo un processo di cambiamento.
Ryota inizia infatti un viaggio a ritroso, che passerà dalla riscoperta di sé come figlio, fino a rivedere il suo percorso come genitore. Un cammino che gli permetterà di guardare con occhi nuovi anche il sofferto legame col proprio padre, da sempre assente, riuscendo a vederlo come un uomo con le proprie debolezze.
Saranno delle foto trovate per caso, immobili e statiche, come statico e rigido è il suo atteggiamento, a creare in lui una nuova consapevolezza. Le immagini, più delle parole, riusciranno ad aprire un varco in quell’emotività che fino ad allora sembrava inaccessibile e gli permetteranno di entrare in contatto con certe parti fragili e delicate di sé che sono anche del figlio, accettandole.
Il film riesce a raccontare con estrema delicatezza un dramma che diventa un percorso di crescita personale.
Diventare genitori è anche intraprendere un viaggio, che parte prima di tutto dalla scoperta di sé.
Alla fine del film, verrebbe da chiedersi se la domanda che il regista voleva suscitare fosse in realtà: cosa rende padre un uomo?