“THE PLACE”: un film italiano del 2017 diretto da Paolo Genovese; adattamento cinematografico della serie americana “The Booth at the End”
“The place”, l’unico ambiente che appare nella pellicola di Paolo Genovese. Un bar anonimo ed intriso di mistero ma così significativo per tante persone da essere considerato “il posto”. Valerio Mastandrea interpreta il ruolo del protagonista, un uomo senza nome che, seduto al tavolo di un bar, si dedica giorno e notte all’ascolto di otto persone in difficoltà. A loro assegna compiti terribili ed assurdi in cambio della soluzione ai loro problemi.
Ma quest’uomo misterioso chi è? E’ uno psicologo? Un sacerdote? Un avvocato? Un amico? Nessuna di queste categorie sembra poter svelare la sua vera identità. Eppure, tutti si rivolgono e si affidano completamente a lui: chi ha perso la fede e vorrebbe riacquistarla, chi ha il marito infermo e vorrebbe guarirlo, chi vorrebbe trascorrere una notte di sesso con una modella, chi è cieco e vorrebbe riacquistare la vista e così via.
Queste persone appaiono tristi, deluse, turbate, irose, impazienti, incarnando perfettamente la disperazione propria della sofferenza umana e mostrandosi disposte a qualsiasi gesto pur di essere maggiormente soddisfatte della loro vita. In tutto questo, non viene nascosta anche la paura e lo scetticismo iniziale nell’accogliere le indicazioni suggerite dal protagonista che si spingono all’estremo e coinvolgono in pieno il sistema profondo dei loro valori morali toccando quella delicata e vertiginosa soglia che separa il Bene dal Male: “Perché chiedi cose così orrende, tu? chiede uno dei personaggi. “Perché c’è chi è disposto a farle”, risponde il protagonista.
Il costante susseguirsi di scene a crescente intensità emotiva rende il film, dal ritmo apparentemente lento, rapido ed incalzante suscitando nello spettatore una serie di interrogativi: è l’uomo seduto al bar a decidere le sorti della vita delle persone o le stesse persone a scegliere quale direzione dare alla loro vita? Si percepisce il faticoso lavoro del protagonista che, pur mantenendo compostezza e distacco, si fa carico delle richieste e dei lamenti degli altri, fino a giungere alla fine del film, consumato, come quella carta della sua agenda che brucia ogni volta che una azione da lui suggerita viene portata a compimento.
“Mi hanno detto che lei aiuta le persone ad ottenere quello che vogliono”-“Diciamo che offro delle possibilità”risponde il protagonista. Questi personaggi, in preda al loro dolore, tentano di affidare all’interlocutore il peso delle loro responsabilità, come se avessero bisogno di non scegliere e di qualcuno che decida al loro posto.
Allora ci domandiamo, come e dove trovare la pace in un momento di forte crisi? Può la sete di giustizia, travestita di pensieri e azioni malvagie, soddisfare questo bisogno?
Questo film diventa un viaggio nel mondo dell’etica personale offrendo l’opportunità di pensare a noi stessi e ad ipotetici “demoni” che abbiamo dentro. Io cosa farei al posto loro?
Il protagonista assume quella funzione di specchio riflettendo chi ha di fronte e mettendolo al cospetto delle proprie possibilità. Tutti nascondono qualcosa di terribile e qualcuno inizia a conoscere parti di sé che non sapeva di avere, come spesso accade ad ognuno di noi. Tuttavia, scoprono anche di avere coraggio, compassione, amore che li porterà a riflettere su loro stessi e sulle loro scelte.
Oggi, con il termine “demone” ci riferiamo a qualcosa di diabolico, che tenta e fa del male; nella tradizione greca, il filosofo Socrate parla di “dàimon” come “guida divina” che assiste ogni decisione e si manifesta attraverso segni che stimolano l’uomo ad eseguire la scelta più adatta per la piena realizzazione di sè.
Chissà se la cameriera del bar, Angela, alla fine del film indossa proprio le vesti di quel “dàimon” che ogni uomo ha la possibilità di trovare dentro di sé per raggiungere l’”eudaimonia”: quella che noi tutti chiamiamo “felicità”.