La terapia con Rodolfo de Bernart.
Avevo tredici anni quando i miei genitori portarono me e mia sorella a fare una seduta di terapia familiare. Ricordo la camminata a piedi e la luna piena alta nel cielo, al ritorno. Il nostro silenzio intatto era pacato: nonostante nessuno parlasse, era bello camminare insieme. Avevamo forse tutti la testa piena, o vuota. Camminare ci scaricava e ci caricava.
Del terapeuta mi rimasero impressi i calzini Burlington, che a quel tempo andavano di moda.
Io e mio padre eravamo seduti ai lati, nella stessa posizione, le braccia chiuse al petto, lo sguardo che cerca la finestra per evadere via. Ancora non sapevo quanto quegli eventi, e soprattutto la relazione con il terapeuta, avrebbero condizionato la mia vita.
Il motivo scatenante fu che ero andata ad una festa senza il permesso e inglobarono in me tutti i problemi della famiglia. In quel periodo ero “la seconda”: non perché ero la seconda nata, ma perché ero seconda ai bisogni degli altri (come mi restituì Rodolfo nella mia terapia individuale successiva). Mi stavo un poco (e per poco) ribellando alle regole di casa, imposte da mia madre, che pretendeva da noi uno studio “matto e disperatissimo”. Così mi mostravo al mondo con qualche gesto di sfida, tipico dell’adolescente, come un ricciolo disordinato, che esibivo con orgoglio. Il tentativo di distinguermi era interpretato come un tradimento familiare alle “lealtà invisibili”[1].
Nelle sedute successive, Rodolfo ci separò nei due sottosistemi classici: il sottosistema dei fratelli e quello dei genitori. Mi piaceva camminare con mia sorella per andare in Istituto, che a quel tempo era in viale Milton. La camminata era già un modo per prepararci alla terapia e ci offriva un’occasione per stare insieme: “La maggior parte di noi passa anni interi a dire ad amici, terapeuti, coniugi e confidenti tutto quello che avrebbe dovuto dire ai genitori e ai fratelli, le persone che più avevano a che fare con certi nostri problemi” (Framo J. L., 1992).
Poi, durante una seduta con la famiglia, avvenne una situazione, per intenderci, come quella descritta in “I giochi psicotici nella famiglia”[2]. Be’, quello fu il momento in cui la mia vita cambiò.
Per una serie di circostanze, rimasi da sola nella stanza con Rodolfo e bastò uno sguardo e qualche accenno di una parola evocativa o che sdrammatizza, come era solito fare, per comunicare che ci eravamo capiti su tutto. Io avevo capito che lui aveva capito ciò che vivevo ogni giorno.
Decisi di iniziare una terapia individuale con Rodolfo. Avevo 17 anni. Cercai il numero sull’elenco telefonico e gli telefonai chiedendo la possibilità di fare una psicoterapia con lui, ma mi disse che gli serviva il consenso dei miei genitori. Loro accettarono e così mi inoltrai in quel lungo viaggio alla ricerca di se stessi. Iniziai a sgrovigliare, a “potare”.
Rodolfo utilizzava spesso nella terapia individuale la metafora della potatura, con l’obiettivo di far nascere dei “germogli”: fare spazio a qualcosa di nuovo, liberarsi da situazioni pesanti, selezionare e fortificarsi per avere dei “rami” più saldi [3].
Questo avvenne anche grazie alle poesie, che iniziai a scrivere in quel periodo.
Terapia e poesia.
Scrivere poesie è stata una forma di terapia, che seguiva la mia evoluzione psicologica.
Poesia come cura, grazie ai suoi aspetti catartici: capace di donare sollievo, attraverso la trasposizione sul foglio e la generazione di qualcosa di corporeo e vitale.
Rodolfo “curava” i miei testi, diceva che erano i miei figli; ed è stato presente ad alcune presentazioni dei miei libri. Gli ho dedicato la prima raccolta di poesie: A chi mi ha insegnato a vedere nel buio. La poesia che segue è stata scritta per lui.
ANCHE TU PESCE
Sciame d’api il corpo
si dissolve, sabbia al soffio
del divenire.
Ogni granello sceglie
il giusto posto,
perfettamente incastrato
nella scacchiera dei giorni.
Inglobo le labbra nel petto,
racchiudo il demone nel cristallo,
tocco re e regine e nella forma trovo
il tonno, il pesce, la bilancia.
Anche tu acqua, di sopra
e di sotto, nel tempo dei fiumi
e dei laghi, di chi nuota
e di chi osa controcorrente.
L’esternazione d’intime profondità
stringe il suo mezzo. Scoiattolo
s’arrampica, picchio penetra
e costruisce aperture, al ronzante
mutamento dell’intuire l’oro
del proprio pesce.[4]
Durante la terapia abbiamo lavorato anche attraverso la lettura di libri, la visione di film (che erano passioni comuni) e sull’interpretazione dei sogni. Una volta sognai una casa affrescata in Piazza d’Azeglio e Rodolfo mi disse che aveva vissuto proprio in quella casa!
Poco prima che ci lasciasse, l’avevo sognato con un’espressione di dolore. Si può stabilire a volte un contatto anche nell’attività del sogno, se si è sintonizzati e abituati a “mentalizzare” nello stesso modo.
La prima parte della terapia individuale durò circa due anni e terminò una volta raggiunti gli obiettivi prefissati (valore di sé, formazione dell’identità e sviluppo della femminilità, relazioni affettive e intimità). Avevo deciso anche che sarei diventata una terapeuta familiare.
La cura della relazione: da paziente a terapeuta.
Rodolfo è stato un riferimento adulto importante che si è occupato del mio benessere psicologico e del mio futuro. Mi ha educato affettivamente come un genitore, nelle funzioni dello sviluppo individuate da Meltzer e Harris (1983): “generare amore, promuovere speranza, contenere il dolore e pensare”. Essenziali sia nella famiglia che nella terapia.
In quegli anni mi laureai e feci una parte del tirocinio post laurea in Istituto. Stare dietro lo specchio fu un’esperienza intensa, adesso ero io che compilavo le relazioni delle sedute, facevo le riprese e preparavo la stanza della terapia. Non ero più all’interno ma all’esterno, pur restando dentro.
Ripresi la terapia individuale per un altro paio d’anni, che conclusi prima della specializzazione. Dalla terapia con Rodolfo ho assimilato l’ottimismo, l’ascolto, la protezione, l’umorismo (non mancavano le battute nei momenti difficili). Nella relazione con il proprio terapeuta si sperimenta anche come stare in relazione con i pazienti: la cura della relazione, il dialogo, la gestione degli aspetti emotivi e non verbali. Rodolfo esprimeva molto in terapia individuale gli aspetti intimistici, quelli più legati all’essere. La cura della relazione era legata all’interiorità, all’intimità, all’espressione delle emozioni (commozioni, dispiaceri, bisogno di sdrammatizzare) e aveva un ritmo lento, che accompagna via via nel percorso di crescita.
Ho riscontrato quanto questi aspetti abbiano un effetto funzionale e liberatorio anche nel mio lavoro, soprattutto con le coppie. Alle volte può essere importante rallentare per far sperimentare l’empatia (quando, ad esempio, in una coppia si diventa come “estranei”), il contatto con ciò che si sente, oltre a ciò che si pensa. Abituare dunque a una comunicazione emotiva, dopo aver strutturato un contesto relazionale contenitivo e di alleanza.
MOSAICI
Ricordo ogni oggetto e ogni oggetto
ritrovo al proprio posto. Strane
certezze, strane conferme:
la memoria non mente, è con me.
Apro la finestra del mio corpo
e so cosa vedrò: ecco i tetti e tutti li abbraccio!
Il buio: questo è una novità.
Ancora cerco e ritrovo quella ragazzina.
Gambe incrociate che guardano,
davanti a sé, altre gambe incrociate
sul quadro: ed ora cosa guardo?
Qua esiste la magia ed il tempo è fermo.
Ferma è la terra. Ancora so
cosa troverò e ancora vedo
libri per terra e foto, ma i tacchi
non scivolano più…
Gioia si srotola
per un’ora di vita:
parole come polvere di deserto,
come piedi in marcia,
note di un inno alla vita.
Con me dentro ogni passo,
con me dentro ogni pozzo,
nei fori del mio tronco
e nei germogli.
Tra le mani, sui rami.
Nella pelle,
dietro la schiena.
Potremo domandarci come utilizzare la poesia per la formazione degli allievi oppure con i pazienti, nell’ottica della Poetry Therapy[1]: chi è “il Poetaterapeuta?[2]”. La poesia viene intesa come una forma di terapia: come un veicolo di comunicazione che serva per il riconoscimento e l’espressione delle emozioni e che insegni a mettersi nei panni degli altri senza giudicare.
Con i pazienti si potrebbe utilizzarla, ad esempio, per dar voce e consapevolezza agli stati d’animo più nascosti, per ripercorrere certi momenti della propria vita da una diversa visuale: con una diversa lettura (e scrittura). Come una tecnica di “restauro” e di memorizzazione dei ricordi (con i soggetti anziani a volte viene adoperata l’autobiografia).
La memoria,inoltre, nella terapia, non si scalfisce con il passare tempo. Ricordo, impresse, frasi che Rodolfo mi ha detto molti tanti anni fa, come se sentissi la sua voce in questo momento.
In ogni periodo difficile c’era sempre, bastava una telefonata, una chiacchierata, e tutto ripartiva dal momento in cui ci eravamo lasciati, il tempo non interferiva sulla immediata comprensione, sul linguaggio comune, sul rapporto che ripartiva sempre intatto e nuovo allo stesso tempo, fino all’ultimo. Ci bastava un attimo per cogliere l’essenza della situazione e parlare di ciò che stava dietro tutto, senza introduzioni o fronzoli. Rimaneva inalterata la corrispondenza, che permetteva subito di arrivare al nucleo di ogni circostanza. Una volta mi disse che mi amava come una figlia e, come con i figli, il legame non viene alterato né dal tempo né dalla distanza, nel corso della terapia, e della vita.
Ciclo di vita e terapia (25 anni dopo).
Sono andata a trovare Rodolfo la settimana prima che ci lasciasse. Volevo sapere come stava e chiedergli dei consigli personali. Mi ha detto che pensava che sarebbe potuto vivere altri 5 anni.
Ha sempre protetto i suoi cari ed è riuscito a vedere le situazioni in maniera positiva anche rispetto alla sua malattia. Questo modo di affrontare la morte, senza un lamento, sicuramente è stato un altro tra i suoi insegnamenti, e le grandi eredità, che ci ha lasciato. Oggi che non c’è più, mi è capitato di sognare che mi dava dei consigli proprio come faceva allora, offrendo sempre più possibilità.
Gli ho raccontato un aneddoto che mia madre mi aveva detto essere scolpito nella sua memoria. Una volta, lei e mio padre, dovevano passare da una strada, che era stata chiusa, e un vigile li ha fatti andare perché erano insieme a Rodolfo (che era figlio del Prefetto): lui è scoppiato a ridere…
Inevitabile il fascino di una terapia familiare, dall’interno e dall’esterno.
L’ultima volta che ho visto Rodolfo gli ho regalato due libri di poesia; non sapevo che non lo avrei più rivisto. Rimangono per sempre le sue fioriture.
FIORITURE
Sgrovigli il nero
dell’intreccio,
il nodo persistente
senza la spada.
Schiudi le tinte
del fiore espresso,
nel rosa evoluto,
nel baluginio della veste
che va, in un ritmo
soffice e attuale.
Restauri parole folte
che abitano interne,
non corrose dai fatti,
intatte nel rovescio,
tramandate a largo,
fuoriuscite col gesto
ampio del seminatore,
nel caro nesso
che permane.
Padre nostro,
non preoccuparti per tutti noi,
ché ci hai insegnato
tutto ciò che serve.
Ti sorrido perché tu
non abbia timore
di ciò che avviene:
che tu possa scherzare,
come ami fare,
e che tu possa
roteare, lassù.
[1] Buonaguidi, L., (2020), Introduzione alla Poetry Therapy, Poetry Therapy Italia, rivista di poesiaterapia, a cura di Mille Gru, n 000.
[2] Bulfaro D., (2020), Chi è il poetaterapeuta? Poetry Therapy Italia, rivista di poesiaterapia, a cura di Mille Gru, n 002.
BIBLIOGRAFIA
- Boszormenyi-Nagy L., Spark G. (1988), Lealtà invisibili, Astrolabio, Roma.
- Bulfaro D., (2020), Chi è il poetaterapeuta? Poetry Therapy Italia, rivista di poesiaterapia, a cura di Mille Gru, n 002.
- Buonaguidi, L., (2020), Introduzione alla Poetry Therapy, Poetry Therapy Italia, Rivista di poesiaterapia, a cura di Mille Gru, n 000.
- Framo J. L. (1992), Terapia Intergenerazionale. Un modello di lavoro con la famiglia di origine, Raffaello Cortina Editore, Milano.
- Meltzer D., Harris M. (1986) Il ruolo educativo della famiglia, Centro Scientifico Torinese.
- Selvini Palazzoli M., Cirillo S., Selvini M., Sorrentino A. M. (1988), I giochi psicotici nella famiglia, Raffaello Cortina Editore.
- Tommasi R. (2008), Tendenze di linguaggi (orientamenti di poesia italiana contemporanea), Edizioni Helicon.