Gabriele Bonafoni, classe 1982, attore e performer, si diploma alla scuola di recitazione del Teatro Stabile delle Marche e si è laureato all’Università di Firenze. Dal 1999 ad oggi lavora come attore, drammaturgo e organizzatore per teatro e cinema. Nel 2019 è finalista al campionato nazionale di Poetry Slam LIPS e nel 2020 si classifica secondo al Premio Bologna in Lettere, per la sezione ‘poesia orale e performativa’.
Nei suoi testi poetici, ci guida in un percorso emotivo: il lettore è metaforicamente accompagnato e sostenuto in un percorso di evoluzione, necessario per saper gestire le difficoltà legate al cambiamento, dell’individuo e della società.
C’ERAVAMO TANTO ARMATI
Scaricammo canna da zucchero cubana
e caricammo quel mercantile battente bandiera albanese
con tonnellate di carne umana
quel Titanic in cerca del Lamerika con la cappa
quel Nautilus senza troppe inutili pretese
quel bastimento disperato di anime che scappa.
Capitan Nemo con occhi di bragia
lento si pasce tra le onde dell’Acheronte
e noi ammassati in fila
dalla sala macchine fino al ponte
saturiamo centimetri di questa bambagia
benedicendo il remo che ci malmena
stipati su quel cargo in ventimila
come le leghe c’abbiam sotto la carena.
Ma noi, che c’eravamo tanto amanti
nei bagni del liceo
tu immersa nel blu dipinto di pianti
ed io già qui a guardare il cielo sopra Barletta
da queste sponde, io sarò Romeo
e tu affacciata a quel barcone sarai la mia Giulietta
che non è già più una Capuleti
che sogna Caput Mundi
pregando tra le onde
che quella barca non affondi.
E non ci vinceran colera
tisi o tubercolosi
tu non Marguerite Gautier
ma noi, promessi sposi,
non sarà la peste nera
tu Lucia Mondella
ed io Renzo a fianco a te
facciamo rotta Gibilterra
o Ceuta, Cadice, Melilla
è lo stesso, la stessa guerra
noi a bordo di una bagnarola
con al timone don Rodrigo e le sue bravate
sarà a vincerci la spagnola
non l’influenza dico, ma la marina militare
voi, che v’eravate tanto armati
che ci guardate andare a fondo, nel vostro mare.
E se tu dovessi sprofondare
io ti vengo in cerca e ti riporto in superficie
quella terrestre, o quella lunare,
io sarò il tuo Orfeo e tu la mia Euridice,
la mia radice, la mia Musa,
la mia araba motrice,
il mio zenit verso Lampedusa
Noi stipati e costipati
in questa polveriera
in questa scatola senza bandiera
Noi che ce n’eravamo tanto andati
di frontiera in frontiera
coi nostri corpi arrovellati, crivellati di lamiera
Nel tritacarne di quest’orgia di speranze dantesca
io sarò Paolo e tu Francesca
da sempre costretti a inseguirci
le vite, cacciate, scacciate, schiacciate come insignificanti zanzare
ora possiamo fermarci ed unirci,
a fare l’amore, sul letto del mare.
Il poeta traccia una spaccatura luminescente sull’esistenza, da cui esce un episodio, un ricordo, un racconto. Leggendo si è traghettati al ritmo scandito dalle parole, che fanno ondeggiare su e giù, con l’intento di far scoprire ciò che sta più in alto e in basso: una nuova prospettiva relazionale.
I contenuti spaziano tra i più vari: politici, romantici, umoristici, sociali e sono espressi attraverso figure retoriche e giochi di parole, che tendono alla ricerca della parola perfettamente adiacente con il suono.
I riferimenti a citazioni culturali sono calati nell’attualità, problematizzati e affrontati:
‘Ma noi, che c’eravamo tanto amanti
nei bagni del liceo
tu immersa nel blu dipinto di pianti
ed io già qui a guardare il cielo sopra Barletta
da queste sponde, io sarò Romeo
e tu affacciata a quel barcone sarai la mia Giulietta
che non è già più una Capuleti
che sogna Caput Mundi
pregando tra le onde
che quella barca non affondi’.
Viene delineata una realtà poetica che accende ciò che sta intorno e che, con i suoi raggi, implica un mutamento. Lenti di ingrandimento su uno scorcio di vita.
Pezzi di vetro in cui si riflette un sole in versi, con gli effetti speciali:
“E ripenso a quand’eravamo entrambi dallo stesso lato della barricata
io che accendevo la miccia della bottiglia incendiaria
tu che la reggevi e la scagliavi contro quella vetrata
per poi fonderci insieme nel lungo bacio della rivoluzione
mentre dietro il deposito saltava in aria”.
Dopo aver percorso un tragitto, avviene gradualmente un cambiamento interiore: cambia il suono, cambia il sentimento, cambia il luogo.
Si ha l’impressione di ritrovarsi all’aperto, di sentire il suono dell’acqua del mare che va e torna, gli odori intorno, oppure il cigolio di una finestra, che si apre.
La musicalità rallenta e sembra indicare proprio un’apertura nelle relazioni, un contatto, uno sguardo, un brindisi. L’esordio di un battito: un nuovo inizio.
Il timore dell’ignoto scompare e si trasforma in un benessere inaspettato.
Si riscoprono le risorse per apprezzare e godere di una differente visuale e visione del mondo: un miglioramento che sviluppa la mente e innerva il cuore.
BARBERA FLAMBÉ
Ce n’est qu’un début
Hai presente quella massa lì davanti
ai cancelli, spazzata dagli idranti
di reazione, e quegli occhi lassù
compiaciuti e stupiti anche stavolta
della pronta e vigile efficenza
nel sedar con zelo la rivolta
flebile fiamma d’una resistenza?
Continuons le combat
hai presente quell’uomo legato al cancello
che non mangia da giorni, solo per avere
quel posto che gli dà da campà?
Hai presente quell’uomo sul tetto?
Hai presente quell’uomo nel letto?
Hai presente i calli e il sudore?
Hai presente chi suda e chi lotta?
Ora facciamo un gioco.
Facciamo che io ero quello legato al cancello e tu eri il padrone
quella che guarda da lassù
quella che ha fatto la spia
quella che segue la scia
di chi dice che l’amore fa schifo se non è litigarello
e io invece a cercare imperterrito tra una riga e un capoverso
di trovare un compromesso
tra una molotov e un manganello.
E ripenso a quand’eravamo entrambi dallo stesso lato della barricata
io che accendevo la miccia della bottiglia incendiaria
tu che la reggevi e la scagliavi contro quella vetrata
per poi fonderci insieme nel lungo bacio della rivoluzione
mentre dietro il deposito saltava in aria.
E al lume di quegli effetti speciali
dentro a quel nostro rosso di sera
stappavamo fino all’alba e ballavamo barbera
ubriachi di niente e vestiti di ideali.
Ma forse è vero, come dice il cantante,
che si parte sempre incendiari e fieri
e si finisce inesorabilmente pompieri
e tu pompiere hai imbracciato l’idrante
e m’hai lasciato il megafono
a urlare e lottare, solo e afono
contro un mondo di servi e padroni.
Ma sono mulini e sono montoni.
Tu rapita dalle sirene della produzione industriale
io, signor Nessuno, legato alla ruggine di quel cancello aziendale
con l’unica sirena che mi chiama ogni 8 ore
per il cambio del turno alla fabbrica del padrone.
Gli uomini, gli impianti, gli operai, gli amanti,
tu cambi
e il delocalizzar t’è dolce in questa marcia follia
tra lo spedire questo cuore in Svizzera in una veloce eutanasia
oppure in Messico in una qualche macelleria, ad allungarne l’agonia.
Mi guardi oggi da quella finestra con aria compiaciuta e stupita
e ti domandi sul mercato asiatico quanto valga quell’amore dozzinale
che io cerco di defibrillare con l’accanimento terapeutico di una lotta sindacale.
Tu, stasera, dalla finestra di quella festa,
alzi alla mia l’ennesimo flûte di Dom Perignon Rosé.
Io stasera dalla sciarada di questa strada,
brindo alla tua, accendendo l’ultimo barbera flambé.
In Er Poeta racconta anche le asperità della società e del poeta che va “in mezzo a Nomentana”, con una desolazione pasoliniana.
Descrive accuratamente l’isolamento dello stesso poeta, che considera il gatto del vicino: “l’unico co cui posso parlà”.
Ed è proprio al gatto che, inevitabilmente da un punto di vista psicologico, pronuncia le parole che gli ripeteva la madre, che adesso non c’è più:
‘te ne devi annà’ j’apro la finestra
‘te che poi
sta casa te se divora
te sei n’anima speciale
amore mio de mamma’.
Il ruolo del poeta inoltre può essere incompreso, deriso o frainteso, nelle sue complessità, ma riguarda valori universali, nei quali chiunque si può riconoscere e apprezzare:
‘Me chiamavane Er Poeta
e mo’ me ce l’hanno pure scritto
grosso, lì, in neretto.
Ce sta uno de Frascati che c’ha fatto i sòrdi grossi
chee cartacce che m’hanne trovato nter cassetto’.
L’autore esprime un messaggio di speranza e di mutamento sociale: “quel giorno cominceremo a capire che la rabbia è solubile nella mollica[1]”.
Ed il poeta è il “traghettatore”, indispensabile guida per l’animo: per attraversare le sponde dei tumulti, interiori o collettivi, e compiere il percorso.
ER POETA
Me chiamane Er poeta
ma poeta io nun so
me vorrei chiamà performer
che me fa più inserito
è che me piace mette giù
i pensieri daa giornata
poi rileggo e li rileggo
e me parono ‘na figata
cioè, me pare ‘na roba grossa de ave’ fatto chissà che
così m’alleno a recitalli in salotto che c’è spazio
finché mi madre non arriva co ‘na scopa o co n’bastone
a ricacciamme in camera mia
a lamentasse de sto strazio
a dimme che quanno more alora o posso usa’ er salone
ma no prima, che se no j’o nzozzo.
E vado nei locali dove me fanne recità
a chi vole sali’ sur parco chiedeno de arzà
‘a mano
io so sempre uno de quei 3 sfigati
che arzeno quer dito
e saleno sur parco a legge ee poesie
a me me piace, me pare d’esse importante
qualcosa d’avello costruito
ntaa vita, po’ arzo j’occhi
e m’accorgo che queij’artri do sfigati
ner frattempo se n’è annati
so rimasti du regazzini
che me pieno per culo dar bancone
e du vecchi infreddoliti
che dormeno in stazione.
Cambio bar e me pio na sbronza
po torno a casa e steso su quel letto
scrivo ‘na poesia
i’ rima
su i vecchi, i regazzini, ‘a periferia
e su sta vita che è ‘na stronza
che te fa sentì n’inetto
po rileggo e me fo pena
accartoccio ‘ste stronzate e ‘e butto n’ter cassetto.
Me chiameno Er poeta
ma poeta io nun so
se fermeno caa machina
in mezzo a Nomentana
e me tireno ‘e Moretti
gridandome ‘a finocchio’
io m’abbasso pe’ guardà
se almeno ntee moretti
qualcosa ancora un po’ ce sta
pe’ non esse stati vani sti 4 lividi nter petto.
Me urleno ‘a poeta’
in mezzo a ‘na risata
po se riarza er finestrino
e riparteno de corsa
sgommando.
E in camera mia co’ carta e penna scrivo do cazzate
i’ rima
su e Moretti e ‘e sgommate
e su ‘e scarpe mie bagnate
de bira o de pisciate
po rileggo e me fo pena
apro ’n cassetto, e ce butto ste stronzate.
Me grideno ‘a finocchio’
ma finocchio io nun so
a me me piaceno ‘e donne
ma è che c’ho n’animo sensibile
come mi madre me diceva
‘È che te ne devi annà
sta città te se divora
te sei n’anima speciale
amore mio de mamma’
me diceva lei la notte
baciandome ‘a fronte
piangendo
io ‘a scostavo un poco
e je piavo ‘a faccia tra ste do mani
e guardandola nte j’occhi je dicevo ‘a mà
e non mu devi rompe er cazzo nun te devi da preoccupà
so’ grande e po’ se me ne vado sto sempre lì a pensà
se magni, se dormi…te pare er modo de campà?’
je dicevo, soridendo
e sorideva pure lei, ma dietr’e lagrime
se vedeva che piagneva
je tiravo ‘e coperte e je davo n’bagio ntaa fronte
‘bonanotte mà’ e spegnevo aa luce ntaa camera da letto
e in camera mia scrivevo do cazzate
sui sorrisi de mi mà
e sulle guance sue bagnate
po rileggo e me fo pena
e accartoccio ste stronzate e ee butto nter cassetto.
Me chiameno ‘er performer’
ma performer io nun so
i performer so quelli fighi
sui canali de youtube
e io passo tutto er giorno
in salotto che c’è spazio
a provà de falli uguali
sti 4 passi e ste parole
e me sento na potenza, na potenza nucleare
e fo ‘e mosse e urlo e strillo e me pare de esse dio
che riempie ‘o stadio olimpico e in mezzo ar campo ce sto io
co sta folla lì per me e me sento de volare
come n’aquila
po’ me giro e c’è er vicino caa moje
che me guarda daa finestra
e stanne a ride e punta er dito
po’ s’accorge coo vedo
ma n’è che se vergogna ‘rmane lì ancora un pochetto
pe vedè se ricontinuo
po’ se gira e rientra n’casa senza er cenno de ’n saluto
io me giro e mo’ ‘o stadio è de novo casa mia
e più che n’aquila me sento ‘no scimpanzé
‘a folla ora è solo er gatto der vicino su ‘a poltrona mia
e spengo sur telefono er video de bionzé
ma er gatto der vicino
quello non me giudica
apre ’n occhio, me guarda, e se riaddormenta
e a me va bene così
non ride e nme tira nie’
e vorrà dì che almeno a lù je piace s’è rimasto qui co me
è l’unico co cui posso parlà
mo’ che mi madre se n’è annata
je vorrei dì ‘fermete, non tornà da quei stronzi, che te rideno ntaa faccia’
ma io che non c’ho da magnà manco per me
io che è un mese che riscaldo sta minestra
a sera ‘o rimando dar vicino
e dicendoje ‘te ne devi annà’ j’apro la finestra
‘te che poi
sta casa te se divora
te sei n’anima speciale
amore mio de mamma’
lù me guarda e non capisce
a buttallo fori non c’ho er core
e lascio aperto, anche d’inverno
tanto nun fa differenza
e nun ce sta niente da rubbà
e lo sento de notte grattà dar vicino
che lui è intelligente e sa che se ne deve annà
e sorrido e sento na lacrima che scende sur cuscino
appiccio un po’ ‘a luce
e scrivo du cazzate sur gatto e su sta mmerda de giornate
po rileggo e me fo pena
e ‘e butto nter cassetto ste stronzate accartocciate.
Me chiameno ‘Er poeta’
ma er sogno mio è de fa er performer
e vado nei locali dove me fanne recità
a chi vole salì sur parco chiedeno de arzà
‘a mano
io so sempre uno de quei 3 sfigati
che arzeno quer braccio
e salgo e mentre sto li sopra me sento un po’ bionzé
a l’olimpico
ma poi me tireno e noccioline
e me gridano scemo
e da bionzé me trasformo in un pajaccio
chee scarpe grosse e er naso rosso
come la vergogna,
come la decenza
de scenne da sta gogna
sognavo de fa er poeta
nun so mette in fila du parole
figurasse n’esistenza.
Me chiamavane Er Poeta
e mo’ me ce l’hanno pure scritto
grosso, lì, in neretto.
Ce sta uno de Frascati che c’ha fatto i sòrdi grossi
chee cartacce che m’hanne trovato nter cassetto.
[1] Gabriele Bonafoni, La pistanarchica.