Andrea Fabiani nasce alla Spezia nel 1978 e nel 2005 si trasferisce a Genova dove tuttora risiede. Ha pubblicato racconti e poesie in varie riviste cartacee e online (Inutie, Rapsodia, L’inquieto, Carie). Nel gennaio del 2013 è tra i fondatori del Collettivo Linea S, gruppo che si prefigge la promozione della scrittura e della lettura. Con loro, nel 2015 pubblica Ciclismo epico, raccolta di racconti ispirati al ciclismo, illustrati da Studio Rebigo. Nel settembre del 2016 pubblica la sua prima raccolta di poesie: Volevo solo non scrivere poesie d’amore, edizioni La Gru.
Dal 2015 fa parte dei Mitilanti, collettivo poetico con sede alla Spezia, coi quali nel 2016 ha pubblicato l’antologia Mitilanti Vol.01 – è ancora un golfo per poeti e, nel 2018, Casa dentro, EP di spoken word, con le musiche di Michele Mascis.
Sempre con i Mitilanti, ha organizzato Palamiti: rassegna annuale di poesie performativa e molte performance poetiche, un drive in marino nel Golfo della Spezia e la più recente Poetry Take Away. In collaborazione con la scuola di scrittura di Genova Officina Letteraria, ha tenuto workshop di poesia e performance.
Molto attivo nel mondo del poetry slam, sia come partecipante (è stato vicecampione italiano nel 2017), sia come organizzatore ed MC.
Attualmente è presidente della L.I.P.S. – Lega Italiana Poetry Slam. Ha da poco partecipato a Poetry Slam!, primo torneo di poetry slam trasmesso in televisione (in onda su ZeligTV).
Non gli piace il cioccolato. Scrive poesie impastate di miele e nostalgia: sublima un tempo passato, che si può recuperare e riattualizzare proprio tramite la poesia.
Ancora credevo
I poeti
sanno i nomi di tutte le piante
son botanici esperti.
Di rado dicono fiore.
Preferiscon
li sentiate dire giacinto
narciso
elicriso
agapanto.
Han bisogno di precisione.
Per scriver poesie, alcune
di queste nozioni
ho dovuto acquisirle anche io,
farle mie.
Adesso ad esempio
so riconoscere il giglio
l’orchidea, l’eucalipto
la verbena e il cisto.
Recentemente ho scoperto
che piscialetto e dente di leone
in realtà
sono la solita pianta,
di cui ora conosco anche il nome
maggiormente appropriato:
tarassaco.
Dico tarassaco, ora, riempiendomi
di poetico afflato.
Ne è passato di tempo. Un tempo
quel fiore
lo chiamavo soffione. Ma allora
non avevo ancora
scritto
nessuna poesia.
Ero piccolo,
uscivo di casa e correvo
Ero ingenuo,
ancora credevo
fosse un respiro profondo,
fatto a occhi chiusi,
il prezzo
di un desiderio.
Il poeta fa commuovere delicatamente e precisamente tocca le corde giuste del sentimento. Il prezzo di un desiderio è ciò che si paga per crescere, ma grazie alla poesia si può mantenere la genuinità dell’infanzia anche da adulti.
Lo scrittore raffigura, nelle sue poesie, viaggi interiori, crisi individuali e solitudini relazionali, che hanno il sapore del deserto. I ricordi sono dolenti, i corpi doloranti ma si trova un riparo nel testo poetico, che permette di scoprire il nuovo moto dell’esistenza. Un moto ondoso che fa scivolare sui versi, verso la libertà di scegliere accuratamente le parole e la persona che si vuol come diventare.
Coincidenza
Sul mio divano, la sera
mi sento solo
come in un’infima
stazione deserta
la coincidenza ormai persa
la prossima
tra chissà quanto.
Le voci della TV
come il frinire di cicale nel vento
caldo. Il sole è alto
e non c’è ombra.
Mia moglie è un altro
viaggiatore smarrito.
Mi si siede accanto
senza parlare. Sorride
al suo cellulare.
Scambia messaggi con un’altra persona
a volte la chiama
senza neppure
andare nell’altra stanza.
Crede che non comprenda
quello che dice, crede
d’aver inventato una specie
di linguaggio segreto.
Credo la faccia sentire brillante
l’aver ideato
uno stratagemma.
Si dicono
che giovedì si vedranno
a casa di lui, nel pomeriggio.
Potrei dirle che so,
che ho capito
tutto, ma non lo faccio.
Penso mi farebbe
sentire peggio. Siedo
in silenzio, sul mio divano
mi sento solo
in attesa di un treno
di una coincidenza.
Al mio fianco
una sconosciuta viaggiatrice.
Ogni tanto la guardo.
È così bella
quand’è felice.
L’autore descrive attese e rimpianti: momenti di riflessione in cui è difficile agire, non esce la parola, il corpo si blocca. La coincidenza è persa: è passata l’occasione per cambiare, per compiere uno spostamento dal divano, che resta inattuato.
Gli esseri umani sono rappresentati come viaggiatori smarriti e soli, ma ancora capaci di notare la bellezza: la bellezza dell’altro e del mondo, da portarsi in tasca e utilizzare al bisogno.
Mi vengono in mente i viaggiatori del racconto di Rodari Il gatto viaggiatore, dove ognuno proietta nel dialogo la propria individualità e opinione, con una grande solitudine, e forse anche incomprensione, di fondo. E qui, in coppia, si viaggia accanto ma come sconosciuti. L’animo però è in continuo fermento ed ha bisogno di esprimere, in maniera catartica, la propria creatività nel testo poetico, che freme per raccontare…
Modì
A volte lo faccio ancora, se è una bella giornata e non sono troppo in ritardo scendo dall’autobus un paio di fermate prima, attraverso il viale trafficato e cammino fino al mare. Imbocco il vicolo tra i palazzi che conduce a questo piccolo, inaspettato borgo di case basse, davanti alla spiaggia: un paesino di mare nascosto in mezzo a una città. Mi fermo sulla terrazza accanto alla chiesa a guardare le nuvole immobili della mattina, le onde lente, i pescatori che tirano a riva le barche, se è estate qualche anziano che già sistema la sua sdraio sulla spiaggia ancora in ombra.
Io e Modì venivamo spesso qui, la mattina. Arrivavamo entrambi dal centro, ma con mezzi diversi: lei col suo motorino grigio e io con il mio fedele autobus numero quarantadue. Durante il tragitto dalla fermata alla terrazza facevo una tappa al bar subito prima del vicolo e prendevo due caffè da asporto, qualche volta un croissant con la marmellata di ciliegie, o integrale al miele, e le portavo la colazione.
C’erano delle panchine, ma consumavamo tutto in piedi, uno accanto all’altra, guardando dritto davanti a noi, la linea d’orizzonte, qualche vela in lontananza, il volo dei gabbiani. Ammiravamo quello spettacolo quasi senza parlare. Dicevamo soltanto “che bello!”.
Io avevo cominciato a chiamarla Modì, nella mia testa. Modì come il soprannome parigino di Amedeo Modigliani, per via del suo lungo collo. Ogni tanto in quelle mattine lo sbirciavo, di sbieco, mentre lei guardava il mare. Le accarezzavo con gli occhi la pelle bianca che spuntava dal bavero della giacca e saliva su, fino al suo viso, illuminato dai raggi bassi del sole. Poi una volta gliel’ho detto, tutto d’un fiato: “io nella mia testa ti chiamo Modì”. Poi, senza che lei dicesse nulla, a mo’ di non richiesta giustificazione, ho aggiunto: “se Modì, quello vero, avesse avuto la possibilità di ammirare il tuo collo, ora ci sarebbero tuoi ritratti nei musei di tutto il mondo. Altro che Jeanne Hébuterne”.
Lei aveva riso allora, continuando a tenere lo sguardo fisso davanti a sè, e aveva soffiato fuori un po’ di fumo della sua sigaretta. “Va bene, – mi aveva concesso voltando la testa verso di me – chiamami pure Modì. Mi piace Modì”.
Poi si era rimessa a fissare l’orizzonte. E così avevo fatto anche io.
Quello sulla terrazza davanti al mare era il solo tempo che passavamo insieme. Il tempo di un caffè, un croissant e una sigaretta, poi andavamo al lavoro. Lei riprendeva il suo motorino grigio, io, invece di aspettare l’autobus, camminavo. Quel tempo passato insieme sulla terrazza davanti al mare era uno scampolo di bellezza che ci mettevamo in tasca e portavamo con noi, dentro un ufficio che entrambi odiavamo. Durante la giornata lavorativa non capitava quasi mai di incontrarsi. Quel “che bello!”, pronunciato a voce bassa, era l’unica cosa che facevamo insieme, una boccata d’ossigeno prima di otto ore d’apnea. Ci salvava.
Sembra sia passato un secolo.
Lei lavora dall’altra parte della città ora. Due anni fa ha ricevuto un’offerta per un posto migliore e l’ha accettata. Giustamente.
Ci siamo sentiti ancora per qualche tempo, dopo il suo trasferimento, ci siamo scritti un paio di mail balbettanti e imbarazzate, poi piano piano siamo scivolati ognuno fuori dalla vita dell’altro. Ho saputo che si è sposata, ha avuto un figlio.
Io no. Io vengo ancora qui ogni tanto. Sempre più raramente. Prendo ancora il caffè, a volte perfino il croissant. Faccio colazione da solo davanti al mare e, per quanto mi piaccia ancora, per quanto ancora mi faccia bene, ormai tutto qui intorno mi sembra avere il colore malinconico d’un palazzo in rovina.
Non c’è mai stato niente, tra me e Modì, anche se credo che tutti e due fossimo perfettamente coscienti che sarebbe potuto capitare da un momento all’altro. Eravamo noi a non volerlo. Preferivamo nutrirci della piacevole tensione di quell’attesa; ci tenevamo idealmente per mano, in bilico davanti all’orizzonte, sempre con la paura di poter precipitare da un momento all’altro uno nell’altra.
O almeno, capisco adesso, questa è sempre stata la mia interpretazione di quella situazione, la giustificazione che ho fornito al mio immobilismo, al mio tentennare, rimandando sempre al giorno dopo quel tentativo di baciarla che, probabilmente, lei si aspettava da me.
Ora lo farei, se Modì fosse qui. La bacerei. La bacerei, cercando sulla sua lingua il sapore della marmellata di ciliegie, sulle sue labbra la stessa morbidezza del croissant al miele. Le passerei lentamente le dita sul collo.
Ora capisco che quando sospiravamo “che bello!”, fissando lo spettacolo che ci si stendeva davanti, fissando l’orizzonte, il sole, le nuvole, il mare, la nostra era una frase volutamente incompleta. Quello che intendevamo dire, coscientemente o no, era “che bello essere qui insieme a te!”
Sì, sono certo che se Modì fosse qui ora, io la amerei.
Ma le cose succedono quando possono succedere, oppure non succedono mai, va così. E tutto quello che mi resta è l’immagine incantevole di questo mare e un orizzonte che sembra davvero lontano, troppo lontano adesso.
“Se guardi il mare non sei mai solo” le ho detto una volta.
“Sì – mi aveva risposto – è vero.”
Non era vero.
Eppure io a volte lo faccio ancora, se è una bella giornata e non sono troppo in ritardo scendo dall’autobus un paio di fermate prima, attraverso il viale trafficato e cammino fino al mare.
Resto il tempo di bere un caffè e mangiare un croissant. Fumo una Diana Blu che mi riempie d’un caldo secco i polmoni. Penso a Modì. Mi sento un po’ meno solo. E solo. Contemporaneamente.
“Che bello!” non l’ho più detto.
La natura circonda gli eventi descritti e l’orizzonte è ampio, sconfinato: “qualche vela in lontananza, il volo dei gabbiani[1]”. Si avverte il frinire delle cicale, l’odore salmastro delle piante, il profumo dei fiori e dei croissant ancora caldi, della marmellata di ciliegie.
Qualche tratto, denso, ed il poeta è già in grado di delineare la personalitàpsicologica dei personaggi e tutta la scena. Si visualizza l’immagine, tracciata da parole ben messe e da colori pastello che non tramontano, al ritmo dell’esistenzialismo: le frasi diventano pennellate che tingono di celeste. Il testo diventa un acquarello in cui il mare si confonde con il cielo e la vela della barca con le ali dei gabbiani.
L’autore rappresenta uno spazio aperto, necessario per respirare, e riferisce che il contatto umano e le relazioni familiari sono indispensabili per resistere all’apnea di ogni giorno. La poesia di Andrea Fabiani è delicata e romantica come il crepuscolo e, al tempo stesso, essenziale e vitale come respirare: riempie i polmoni di buono.
È una poesia portatile: da portare con sé ogni giorno, per prendere ossigeno nei momenti difficili e in un giorno d’autunno.
Un giorno d’autunno
“Vedi? È un giorno d’autunno”
diceva sempre mio nonno,
anche d’inverno o d’estate, fissando
le navi ormeggiate.
Stavamo in piedi,
all’ombra del faro.
Mi portava spesso
la sera sul molo
a guardare
quei colossi mollare le cime,
prendere il mare.
La mia mano di allora
aveva soltanto otto anni,
che diventavano
poco meno di cento,
stringendo la sua,
mentre parlava
con ritmo lento,
la schiena tesa, il mento
dritto nel vento, come una prua.
Indicava una nave
a caso, la gente
in piedi sul ponte, diceva:
“Devi capire, bene,
che cosa accadrà
a quelle persone. Qualcuno
si sta lasciando
dietro l’amore. Qualcuno
lo porterà
per sempre con sé
sul fondo del mare. Qualcuno
toccherà un nuovo mondo
che non vorrà
farsi toccare.”
Ascoltavo in silenzio, capivo
soltanto in parte,
mio nonno mischiava
passato e presente
realtà e finzione, così
come si mischia
un mazzo di carte.
Raccontava le vite
di amici mai avuti
partiti
in cerca di gloria
“qualcuno di loro – diceva –
è riuscito perfino
a cambiare la storia, tornando
per uccidere un re
o restando laggiù,
per farsi ammazzare,
espiando la colpa
più grande dell’uomo, quella
di continuare a sperare.”
Non credo prestasse attenzione
nelle sue narrazioni
al filo logico degli eventi.
Io a mente prendevo appunti,
e a casa scrivevo,
in un quaderno a quadretti,
tutto
quello che ricordavo
dei suoi racconti.
S’incupiva, ogni tanto,
aumentava la sua confusione.
Era allora che ripeteva
quella cosa della stagione:
“Sai, avevamo – diceva,
rivedendosi a bordo
di una nave
che non aveva mai preso – un’immensa,
stupenda paura, al momento
della partenza.
Ritti in piedi, là su quei ponti
mentre ci staccavamo
da terra eravamo
tutti quanti
fragili,
come foglie su un ramo”.
“Per questo – concludeva mio nonno –
quando salpa una nave non conta
in che stagione si è,
è un giorno d’autunno.”
Diceva cosi
in quelle sere davanti al mare
diceva così e usava il plurale,
inventando
ricordi non suoi,
che intrecciava, romanticamente
coi suoi sogni
di mancato emigrante,
o forse, chissà, era innocente
vittima d’una mente appassita
di un’insana memoria
e nei traghetti della Tirrenia, nelle grandi navi crociera
lui davvero vedeva il Sirio,
il Rex, l’Andrea Doria.
Talvolta il sole morendo
regalava uno strano
tramonto che dai colori,
diceva lui, sembrava africano.
Io non facevo domande
seguivo le navi tracciare lente
piccole onde, sparire
nell’orizzonte, sognavo
nell’ombra crescente dell’imbrunire
il giorno in cui anch’io
sarei potuto partire.
Oggi
torno ancora a quel molo
ci torno spesso, dopo il lavoro,
ci torno, ma sono solo.
Non c’è più mio nonno, io
non sono partito. Ci torno
smarrito
con in mano una birra e il quaderno
dei miei ricordi dei suoi ricordi,
per cercare di mettermi
di nuovo gli occhi
dei miei otto anni.
Qualche volta il sole regala
ancora lo stesso
strano
tramonto africano, le navi ancora
prendono il mare,
c’è sempre qualcuno,
nel vento sul ponte a salutare.
Li guardo partire e ho nostalgia
di mio nonno, dei suoi racconti
della mia mano
dentro la sua e, in generale,
di tutto ciò che non fa ritorno.
Eravamo soltanto
un insegnante e un alunno.
Ho imparato bene:
ancora oggi, per me
quando salpa una nave
è un giorno d’autunno.
[1] Andrea Fabiani Modì.