Marco Dell’Omo nasce a Firenze, nel 1994. È studente del CdL Magistrale in Fisica Teorica presso UniFi; improvvisatore, slammer ed attore amatoriale.
È membro fondatore del collettivo poetico fiorentino Ripescati dalla Piena (con Max di Mario e Gabriele Bonafoni), col quale frequenta e cura la scena artistico-letteraria cittadina e regionale ed organizza eventi e collaborazioni (all’interno come all’esterno dell’ambito poetry slam e del circuito LIPS – Lega Italiana Poetry Slam), con particolare attenzione alla zona di frontiera tra teatro e parola poetica.
Nell’ultimo anno e mezzo, il tentativo di una sintesi tra improvvisazione teatrale e poesia performativa lo ha coinvolto nel format Tekken Poetry (con Luca Bernardini e Max di Mario). Dal 2018 al 2020 è allievo dell’amico Luca Bernardini nel progetto teatrale universitario “EcceTheatre” e nei laboratori teatrali di Chille de la Balanza, compagnia teatrale d’avanguardia di San Salvi, ex manicomio di Firenze.
Dal 2011 al 2013 improvvisa nel format del Match d’Improvvisazione Teatrale® a squadre nella lega liceali fiorentina (progetto Areamista), poi ancora dal 2017 al 2019 con la LIF – Lega Improvvisazione Firenze.
Nel 2014, con il gruppo english rock I Loschi, è finalista italiano del live contest mondiale Emergenza Festival.
Nel 2012 è finalista italiano delle Olimpiadi della Matematica a squadre.
La poesia di Marco Dell’Omo viene dall’Appennino e lascia un solco nell’arenaria e nel cuore del lettore, tramandando tradizioni familiari dall’odore di polvere e di ragù.
VISIGNANO
Polvere ed odore di polvere. Un bastone portato da casa che non si sa mai, ci traccio i primi graffiti del mondo nell’arenaria, nel naso odore di ferro e calce brilla di punte di spillo e brucia secco ad ogni strato che spezzo.
Mamma mi chiami che hai già passato la curva dopo la chiesa e la Madonna delle vespe, strapiombo nostrano friabile a destra, sto attento che sennò mi faccio un ruzzolone mortale negli Oro Saiva come la nonna di cui raccontate e di cui non so il nome, tornando a buio con il bucato lavato al fiume.
Mi affretto / non rispondo, questo sole, questa valle secca rapiscono in una morsa di stanchezza a cui non si sfugge, abbacinano. Non sono permessi che pensieri vaghi, ampi, ariosi qua… si soffoca sennò, che mi gira la testa ma ho messo il cappellino e poi abbiamo aspettato le 15:30 che il sole è già un po’ calato, per questo sbadiglio, mi ritiro al primo livello dei sensi che sto come un ragno. Qua distribuiamo la pressione del pensiero sulla più ampia superficie possibile, ogni urgenza se la
mangiano le crepe come l’acqua e le lucertole… se non fosse che a una certa dobbiamo tornare a casa a girare il sugo, saremmo rettili anche noi…
Non so come dirti grazie babbo. Per queste estati senza gioco aperitivo con la maglia delle Olimpiadi del 2000, coi pantaloncini, con le scarpe incartapecorite e pesanti e fredde di zia, l’ultima volta che è venuta su, ragazza a coglier more.
Per questa
noia
bestia
bella
che ci chiude settimane in cerchi come gli anni in alberi e ci consuma ancora legna nelle mani come manici di zappe. Per questo lavoro d’arte e di schegge, che domani io sarò duca e tu sarai stanco.
Per questi ultimi alberi nel paretaio che brizzolano l’ombra, qua mi piace davvero venire solo per
guardarti fare, sei a casa, babbo, con quel pennato in mano.
Grazie per questa storia ai margini ed estremamente consueta che è la storia della tua famiglia; e della mia.
Per “che si fa oggi?” “oggi s’aspetta”, per questo indugio nel sole che è la storia di tutti, fino a 100 anni fa, che me lo sento addosso, ora che in molti non sanno l’animale che siamo. Per quest’ozio vago disperso che non chiederò mai indietro.
Per questo secco che non s’immagina, i toni seppia, il sole che impaglia con l’erba pallida secca i tempi che a Visignano ristagnano senza marcire nella traccia arida dei cingoli; immaginare bambino a fianco della mia la noia di nonno, probabilmente un suo bastone in mano, far solchi nell’arenaria.
Incontrarsi così, per la prima volta, per non aver di meglio da fare.
Per lo zoo degli scorpioni nelle bolle dell’intonaco; quella volta me ne trovai uno sul dorso della mano, anche per questo mamma mi affrettai a raggiungerti.
I testi di Marco Dell’Omo uniscono la tradizione all’innovazione: si rinnovano le abitudini della campagna e della famiglia, nel corso del tempo.
Lo scrittore ringrazia, in un’ottica sistemica:
Grazie per questa storia ai margini ed estremamente consueta che è la storia della tua famiglia; e della mia.
Per “che si fa oggi?” “oggi s’aspetta”, per questo indugio nel sole che è la storia di tutti.
Descrive le fatiche familiari e le pause, necessarie per non soffocare, abbagliati dal sole nella valle secca, dove anche la noia diventa bella:
Per questa noia bestia bella che ci chiude settimane in cerchi come gli anni in alberi e ci consuma ancora legna nelle mani come manici di zappe.
Accosta il tatto al gusto: si sente il caldo rovente, che fa girare la testa, e la polvere in bocca. Mentre leggiamo appaiono gli alberi “che brizzolano l’ombra” e ci immaginiamo i loro cerchi interni, le loro età. Il tempo si ferma:
Per questo secco che non s’immagina, i toni seppia, il sole che impaglia con l’erba pallida secca i tempi che a Visignano ristagnano senza marcire nella traccia arida dei cingoli.
La poesia di Marco Dell’Omo è densa di parole pregiate, utilizzate per descrive dei gesti semplici. Va letta e riletta per assorbire tutto, anche le crepe o le bolle dell’intonaco. È una poesia di pulviscoli e minerali, composta di elementi essenziali come l’atomo: minima e lucente, incredibilmente secca e feconda, al tempo stesso arida e fertile.
Una poesia naturale dal sapore agrodolce, che scorre nelle vene come vino, contornato da un buon cibo.
NATALE
Auguri. A Natale siamo tutti/e più buoni/e, ma a me piace pensarci assatanati/e…
…di abbracci famelici
e non di dolci diabetici.
Mi piace pensarci all’assalto
di un palco:
frizione alla Terra,
poi la sfida in un salto
di gruppo
ai gravitoni, ai meridiani, che legano suole al soppalco
d’un cielo, UNO, aperto, UNO;
e qualche buon carburo d’alcool
e smalto e bocche e denti e digiuno
e denti
[voglio il vostro sorriso più animale e frugivoro per questa foto]e denti
come picchi bianchi di smalto himalayano.
Mi piace pensarci il sale rosa per l’alta cucina del Mondo, tutto qua.
Con gli occipiti in orbita con tutte le scarpe
3 metri sotto l’universo aspro ed ellittico – e (mal)tagliato –
torneremo ancora parlando a noi
torneremo ancora annusando a noi
torneremo ancora ai qualche carburo d’alcool,
mi piace pensarvi così.
E non con i nasi sbiaditi nel talco
E non su cuscini pastello
E piastrelle pastello
E pastelli
E padelle troppo domestiiche
E pistilli ostici
d’oppiacei stratossici,
E non tra le grinfie di gruppi transfobici.
Vi voglio accanto per l’ultima (s)cena
eroi nazionali o eroi cosmicomici.
Vestiti a festa, o per sberleffo totale, per non rendere male al male, ironici
Arlecchini in incognito, in borghese, vi voglio,
che tanto i daltonici
non ci scopriranno.
Mi piace volervi, ecco. Riassumo:
i problemi dell’anca, che mi perde equilibrio e sogna
la sabbia del deserto, contrappasso al passo
che vacilla, incerto.
Riassumo i problemi di digestione,
a cui manca la compagnia sacrale e sguaiata
per l’estrema unzione del pane,
con sale ed aglio
abbondante.
Riassumo il fuoco mancante
dell’occhio,
quest’iride arride all’impressione e non coglia altra arte;
vacilla nel guardo del fuoco del Sole
da solo non tiene la vista
e riparte.
Riassumo la fame d’ossigeno di questa stanza
che sogna le vele, che sogna di prati.
Più buoni col cazzo. Vi voglio più accesi e convinti ed uniti
Vi voglio pirati.
I testi poetici sono pervasi di sale e aglio, di sostanze chimiche, denti e baffi che vibrano con ironia:
Fermo, nel campo, con un cappello ed un baffo non pertinenti impertinenti[1].
Con umorismo ci si differenzia dalla propria famiglia: A Natale “vi voglio pirati”
e si cerca il proprio posto nel mondo:
Là fuori tutto scorre e scivola, e nel troppo salto avrò terrore da ubriaco. Non potrei essere un funambolo sospeso essendomi arreso alle precipitazioni nei miei impermeabile peso, scarponi piombati, preservativo, casco palombaro, e guanti grossi; se preparo le difese per il croscio a flusso[2].
Il casco, i guanti, l’impermeabile, gli scarponi diventano elementi metaforici per proteggerci dalle ferite, derivate da un contatto umano, che a volte delude; e respirare senza casco diventa un atto di coraggio:
Così indosserete un casco da palombaro che protegga dal coraggio dell’aria i vivi volti, e quando vividi, e quando vinti dai lividi, che dagli affetti non avete imparato che la precauzione di un preservativo[3].
L’elemento ricorrente dell’acqua può destabilizzare, con il suo scoscio, o creare una protezione. Si corre il rischio di isolarsi ma si può imparare un nuovo modo di comunicare in un mondo futuristico, ognuno sotto la propria cupola d’acqua.
Il poeta ci propone un finale dantesco e apocalittico:
Il dottore forse è contento
forse già dall’inizio sgrondò, impermeabile, di dosso
la confusione che accuso
Infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso.
Per gestire il terrore montaliano del salto (il famoso horror vacui che colpisce le attuali generazioni) e i meccanismi di difesa è necessario sperimentare la fiducia nell’altro, per muoversi più sicuri e senza precauzioni. Per fidarsi di nuovo bisogna saltare e osservare ciò che non varia nel tempo,
Di modo che il moto spontaneo conserva
nel moto del modo normale si osserva
quanto genera il gruppo di simmetria,
e perversa d’umano ricerca d’eterno
non varia nel tempo
e conserva energia,[4]
e ciò che rimane costante e che rende speciale e perenne un legame, al di là di tutte le leggi; gli amici:
Son la terracotta opaca del Sole e dell’oro,
quando si mostran cadere funzionano come la gravità;
dirigono l’ago della bussola,
coi sandali ai piedi[5].
Poesia, fisica, chimica, psicologia… si uniscono in un sodalizio esclusivo e incandescente, come quello del cibo. Gli elementi si associano agli alimenti, in maniera creativa. Le regole delle relazioni umane e della fisica occupano la vita di ogni giorno, con i loro teoremi e dilemmi, e si uniscono ai fondamenti nutrizionali di una poesia dolceamara, per cui ci possiamo domandare:
se il cuore è fondente al cacao
o è un core fondente al plutonio.
All’odore d’incenso e di spezie si recupera “il passato… di pomodoro”, si tramanda qualcosa di buono e nutriente e si rinnova un’antica sacralità: un rituale del passato che diviene moderno e sacro. Per il poeta infatti esiste qualcosa di sacro, che si trova proprio nell’Appennino, nella fratellanza e nel ragù.
LA CASALINGA DI VOGHERA
La casalinga di Voghera
apparecchia un lauto pasto,
proprio qui
per voi stasera.
Ha portato, tra le varie, qualche avanzo, da tempo rimasto
per il banchetto.
Ha portato la tovaglia buona ed il centrotavola ricamato all’uncinetto;
ed il suo pane,
ed il suo vino,
e i suoi formaggi, dalla madia
che produsse un vecchio campo, un antico tino:
e son gli odori dell’Arcadia.
Ha con sé
la tradizione
e qualche secolo andato.
Insomma… il passato.
Il passato … di pomodoro.
In barattoli, in lattine
polverose,
Riportato in superficie da cantine
nel profondo sottoterra
e son premura di chi ha visto
e son provvista
e son paura della guerra.
E’ servito in apertura
Dei palati, della mensa,
Il sangue, il corpo del Figliolo
con Divina Provvidenza
salmi, salumi e qualche noce
e del timor del Cristo in Croce.
Poi quei poveri legumi
– però freschi di baccello –
che sfamarono Israele.
E il crisma è l’olio più novello
che ognuno riceve a turno
sulla fetta dal fratello
ch’io gli son.
E il cero illumina d’immenso
e invero affumica d’incenso
e d’odori e d’erbe varie
di scalogno, d’aglio e timo.
Mentre ormai è servito il primo:
Ed è l’impegno, ed è l’ardore,
ed è il salgemma del sudore
e sono i frutti del lavoro
le polente paglierine
e i cereali
e i grani d’oro…
grani d’oro di grano:
chi ne gradisse alzi la mano.
E’ quel bronzo dei Troiani
che fu poi la baionetta
nelle mani ai Partigiani
e Resistenza a cosa brutta
e resilienza umana tutta
che fu stampo ai maccheroni
e trafilò la pastasciutta.
E son l’arguzie degli Achei
da cui il sugo di carne, il pesto
e i tortelli di patate
e i versi dei poeti, e i miei
e le loro penne – De Cecco, rigate –
intinte in fondo al calamaio
laddove l’inchiostro blu
fa sedimento in carne magra
a fuoco lento; ed è ragù.
Poi il secondo è servito, e bene;
ed è il benservito del buonsenso.
E mentre lo porgo a voi sul desco
con l’orecchio mio riesco
a sentir quel convitato e il suo contegno
il cui discorso, pien d’impegno
dice in breve che quel cibo
è troppo buono e delicato per non averne.
E che quel mosto che l’avvinazza in via crescente
non fa per squallide taverne.
E perciò chi non ne ha
è perché fa ammanco di amor proprio
perché la gente è pigra e sciocca
e non gli vale la fatica
il soddisfar la propria bocca.
E’ la Casalinga di Voghera:
rivoga in tavola meritocrazia becera, menzognera.
Sono questi odori che affabulano il palato e l’attenzione
e con la brama di cibo
ne dan di sopraffazione.
Ed è dolceamara
Se a struzzo s’ingolla
Se tutto s’ingozza
E non si fa tara;
Poi ben ci si strozza.
E col sale marino
sale qua l’assuefazione
a cibi esotici, un po’ strani;
ch’è chi dice che violenza li produsse
con strumenti e con le mani.
Ma si sa, son cibi esotici,
prodotti di nicchia o di Paesi lontani.
A noi sembran buoni
quando grondano sangue.
E la Casalinga ride sgangherata,
e riempie il piatto, se il piatto langue.
Non c’è da star dietro
a chi fa gran critica:
gente per cui niente è sano
non mangia nulla e finisce rachitica!
E a digerire fette ai ferri
Che però sono al piombo
E involtini mediorientali con kefia
Braciole alle braci
Quest’ossa di mafia
Vi porgo la calce
E sì è dolceamara;
Sì ben che è agrodolce.
Dolce…
Infine il dolce manca per farvi contenti
che riassuma e medi tra le precedenti
portate.
E ormai nessuno si chiede oppur sa
se la sua fetta è prodotta da ingegno
o da calcolo dove arraffare è l’impegno
e se fu un regalo o la comprò il conio
e se il cuore è fondente al cacao
o è un core fondente al plutonio…
E qualche buon bicchiere, anche;
e non ci si chiede se, quanto e perché
ammazza davvero ‘st’ammazzacaffé.
Vi vedo, convitati, al termine.
La lingua torbida, per il vino
e ancora invece sulle labbra
sorriso e sugo di quei primi
che immortalarono
i primi valori
i primi sentimenti
di cui siamo, nostro malgrado, capaci.
E col prezzemolo tra i denti,
e riscaldati dalle braci
in bocca abbiamo quell’amaro
che un po’ è Del Capo,
un po’ è per pena
lasciata in loco dal secondo
insieme con la proteina.
Non notata, soddisfatta
la Casalinga esce di scena.
Ecco, è così, se a voi ben piace,
che si conclude questa cena.
[1] Marco Dell’Omo, Maggese.
[2] Marco Dell’Omo, Scafandro.
[3] Marco Dell’Omo, Scafandro.
[4] Marco Dell’Omo, Noether.
[5] Marco Dell’Omo, Cartolina di giornata.