Benedetto Sacco è nato a Terni e si è laureato in infermieristica all’Università Cattolica del Sacro Cuore, di Roma, prima di trasferirsi all’estero.
È cresciuto a pane e teatro: da piccolo, sua madre e le insegnanti pensarono di iscriverlo a un corso di teatro per farlo sfogare… ma è stato un incentivo a usare la scuola come banco di prova per i suoi spettacoli. In seguito, infatti, ha recitato con la compagnia Teatro di Carta di Viterbo, insieme all’attore e cantante lirico Alfonso Antoniozzi, e con la Compagnia il chiodo d’oro di Vetralla.
Con il CUT di Viterbo ha portato in scena uno spettacolo sperimentale, con alcuni attori della scuola di teatro di Roma Silvio d’Amico. Con l’attrice, figlia d’arte, Raffaella Fiumi ha rappresentato per la Tuscia alcune commedie d’autore, fino all’apertura di un corso di teatro per bambini, con una parodia dei Promessi Sposi.
Dal 2015 lavora come infermiere in Inghilterra, ma il suo impegno da attore comico continua con i suoi pezzi e canzoni nei vari Open mic.
Viaggia molto, dall’isola di Guernsey fino a Londra, portando la sua musica in giro per pub e locali, dove è stata molto apprezzata la canzone Fantascienza, ballata e cantata da gente di tutto il mondo. Dal 2019 ha intrapreso la sporadica di Slammer poetico, esibendosi per l’Italia con le sue poesie.
Dall’inizio della pandemia, con il suo amico di sempre Emanuele Ramundo, ha iniziato l’avventura di Poesia Virale: hanno diffuso la poesia, l’arte, la musica e un po’ di comicità in tutta Italia, fino alla fine del coprifuoco. Grazie alle dirette Facebook hanno continuato a far conoscere la propria arte e a promuovere artisti provenienti da varie parti d’Europa, nonostante la pandemia.
Benedetto Sacco utilizza la poesia per sdrammatizzare e risollevare gli animi afflitti dai pesi di ogni giorno e dalla società. La poesia è uno strumento per scherzare con se stesso e con gli altri, per avvicinarsi agli altri e non prendersi troppo sul serio.
Il poeta, infatti, nei suoi testi denuncia anche la brutalità e l’abiettezza dell’essere umano e fa riflettere su tematiche di degrado ecologico, ambientale e relazionale.
Il tema del gioco e dell’oggetto metaforico (come nel suo personaggio super comico Dionisia, che predice il futuro leggendo le carte) viene inteso come reazione al peso di vivere e risanamento al dolore.
Anche in psicoterapia è fondamentale riuscire a sdrammatizzare e a creare un clima più leggero. Già Hesse trovò la soluzione agli impulsi depressivi nell’umorismo: nella capacità di “imparare a ridere, ad ascoltare questa maledetta musica della radio della vita… rispettare lo spirito che vi si cela e ridere di questo strimpellio”[1].
La poesia diventa una forma di terapia e possiamo condividere che “ogni terapia è una commedia e ogni sogno è una rappresentazione teatrale”[2].
Ci muoviamo sull’asse pesantezza-leggerezza, la prima intesa come riflessione collettiva su immondi gesti mondani[3], l’altra come lievità, nel senso inteso da Calvino: leggerezza della pensosità, che “non è superficialità ma planare sulle cose dall’altro[4]”. È necessario imparare ad osservare da una diversa posizione e senza pregiudizio: “e se il verso non vi viene da questa posizione, be’, buttatevi in terra! Mettetevi così! Ecco qua… è da distesi che si vede il cielo”[5].
Benedetto Sacco ribalta la prospettiva classica e stupisce continuamente il lettore, che si identifica nei singolari e unici protagonisti delle poesie, che sono i più svariati.
FIGLIO DEL MARE
Tienimi teso trattienimi tenuo
giusto il tempo di un ultimo respiro
giusto l’attimo di uno sguardo miro
la tua immensità ancora ingenuo
mi tocca, mi sfiora sfidando la fisica
culla il mio corpo inerme come se balla
ed insieme danziamo tenendoci a galla
in un attimo diventiamo un’eterna sinfonia lirica.
tu mi sei stato padre, amico, ostacolo
mi hai sfidato, mi hai sfamato
genuino, gigante, immortale, mai nato
ti chiamano mare ma per me sei miracolo.
distinto e distante dalla terra dominante
dove diamanti e dementi dettano
diritti destinati a duplici diletti
tu non ti confondi e agendo aspetti,
che si rendano conto di quanto contano.
e rimane il tuo frastuono armonioso
frantumarsi sul futuro fortunoso
e rimane il tuo colore celestiale
che si confonde, mentre l’acqua sale.
sto annegando lentamente, pian piano
affogano i ricordi, i pensieri
sensazioni di attimi felici, di ieri
mentre si abissa il mio becco di gabbiano.
ho sorvolato la tua infinita schiena
nei giorni di tempesta e luna piena
a cavallo di onde gettavi la tua forza contro gli scogli
e spingevi
e tornavi indietro
e tiravi e ritirandoti gemevi
e poi ancora un’altra, alta, salta,
sobbalza come se gioisse
lasciando schiume bianche fisse
rimangono detriti di immondi gesti mondani
che rigetta e fuoriescono
come espulsi da un mondo a cui non appartengono.
Io invece scendo nel tuo profondo
e spicco il mio ultimo volo andando affondo
chiudendo gli occhi tutto intorno si fa più luminoso
mi appare e scompare la sua immagine
allegro e gioioso,
mi aspetta di ritorno con la bocca aperta, affamato
cerca il mio becco rosso per essere svezzato
scompare ed appare
mio figlio, figlio del mare
custodiscilo proteggilo!
appare scompare, la sua immagine nella mia testa,
accasciato nel nido di una vecchia cesta.
ti schiudesti dall’involucro ovale
una mattina d’estate inaspettata e speciale
ti dimenavi provavi a sbattere le ali, urlavi
placato dal frizzante rumore di sabbia avvolta
nella luce aprivi gli occhi per la prima volta
ed io nel buio apro gli occhi un’ultima volta
per guardare il tuo volto danzare
buona fortuna… figlio del mare.
Attraverso la figura del gabbiano, viene espressa una metafora sulle relazioni affettive e sulla generatività:
“ho sorvolato la tua infinita schiena
nei giorni di tempesta e luna piena
a cavallo di onde gettavi la tua forza contro gli scogli e spingevi
e tornavi indietro e tiravi e ritirandoti gemevi”
ci si fonde, si affonda, ci si separa riflettendo su come essere padri e figli.
La poesia di Benedetto Sacco è multiforme: muta forma e colore come il mare, ma anche come il fuoco. È onda e fiamma: ci arde e placa, ci fa ridere e piangere, mentre affronta i temi della vita e della morte.
Il poeta sforma la forma classica, dalla quale si discosta, dunque, attraverso il trasformismo e anche attraverso l’empatia.
Come per il teatro è necessaria l’empatia, che“non è una lettura della mente, è un diretto legame tra due sistemi nervosi separati dallo spazio”[6], così da un punto di vista psicologico, ci troviamo di fronte alla possibilità di creare delle relazioni paritarie ed evolute, dove avviene uno scambio. L’empatia diviene un aspetto creativo e terapeutico complementare all’umorismo.
Attraverso la poesia ci possiamo mettere nei panni dell’altro e Benedetto Sacco si addentra in un territorio poetico inesplorato: scrive dei testi che, grazie all’empatia, rendono il lettore empatico. Leggendo ci sorprendiamo, scoprendo che il gabbiano, il maiale e il tavolo parlano di noi, siamo noi, in una eterna trasformazione e fusione tra il lettore e il contenuto della poesia, tra soggetto e oggetto.
Il poeta è capace di sintonizzarsi affettivamente, in maniera davvero unica e incredibile, con un bambino autistico, vittima di violenza domestica, da parte del padre, e di atti di bullismo:
“Invisibile anche se evidente, differente senza omologarmi[7]
voglio essere come te, una figura sul muro
che sorride ed è al sicuro
e invece io e te qualcosa l’abbiamo in comune
anche tu sembri un uomo, un essere qualcuno
ma in questa terra lo sei per pochi, o per nessuno”.
Si ispira a un disegno sul muro visto al Museo della mente[8], precedentemente un manicomio, che ha visitato con l’Università: una storia vera, tragicamente conclusa con l’incendio della propria casa, da parte del figlio.
Inoltre, è capace di mettersi nei panni perfino di un maiale, che va a morire:
“Adagiato deposto con cura per un’ultima volta imploro[9]
su questo grigio freddo letto operatorio
freddami in modo veloce senza pietà con ardore
aspetti la mia carne e ne fai la selezione
ferma il mio cuore per primo e non farmi provare dolore”
Possiamo riflettere sul tema del cibo, legato alle tradizioni culturali e alla nutrizione, e quindi alla vita. Se cambiamo la prospettiva però tutto si trasforma e addirittura si ribalta nella morte, se ci identifichiamo con il maiale:
“Se questo è un uomo
io non lo sono
ringrazio di essere maiale”.
Il poeta si sa rivolgere anche al tavolo, sul quale si servivano i pasti in famiglia, antico testimone di tre generazioni:
“Prestami la tua memoria fedele tavolo
mandami indietro al tempo dei sorrisi persi
custode di segreti felici, paure ed amorevoli versi”.
Il tavolo è un oggetto importante del mito familiare, un muto familiare sempre presente e immortale, che ascolta e assorbe gli stati d’animo e gli accadimenti del ciclo di vita della famiglia, e ne assicura la memoria:
“Sono stato fortunato a vederti ancora attivo
consolare conviviare tenerle ancora la mano, vivo
ci sei sempre stato, rimasto, mutato
non hai né tradito né abbandonato
la donna e il suo casato
scalfitture e solchi sono le tue rughe profonde”.
Lo scrittore non si riferisce al nonno, presente e invecchiato, ma proprio al Tavolo, che diventa un essere animato. E immagina un salto all’indietro, nelle generazioni e nei ruoli, per rivolgersi alla nonna, con ingegnosità:
“vorrei incontrarti a quell’età magari fingermi un uomo di circo,
un viaggiatore e provare a conoscerti in veste di ammiratore
forse il nonno mi avrebbe già sfidato”.
Per la madre di mia madre
Prestami la tua memoria, fedele tavolo,
mandami indietro al tempo dei sorrisi persi,
custode di segreti felici, paure ed amorevoli versi,
conoscente silenzioso di una vita e del suo miracolo.
Tavolo, talvolta travolto da tumultuosi tormenti
Tavolo, che tratti con toni tranquilli tenui intenti
tu, nonostante tutto, consoli costante la donna
che nostalgia non mi nega nominarla Nonna.
Convincimi e regalami qualche storia passata,
di quelle ove pasti cordiali serviva l’amata,
e chissà se dilettava anche gioiose danze
tra risate gioviali e giovani graziose panze
si riempivano e gonfiavano e ricoprivano
l’inaspettata attesa di nuove spighe di grano.
Oh tu, potente e duraturo mobilio roccocò
se fossi di cotanto Collodiante dono,
raccontare mi potresti, dei gelati e del cono
di come venivano creati dall’arte minuziosa e schiva
dell’amante e amato marito falegname,
che con occhi stanchi lambiva
dolci carezze e fugaci poesie
per l’adulata giovane sposa,
cui sorriso provocava facili fantasie,
e fantasticando sul futuro con speranza festosa,
ti vedesti in un frangente di fauste sfumature
scorrazzare intorno al legnoso contorno
tre piccole creature,
che diventarono, cresciute,
gli eredi dei sorrisi di nuove età mature.
Sono stato fortunato a vederti ancora attivo
Consolare, conviviare, tenerle ancora la mano, Vivo.
ci sei sempre stato, rimasto, mutato
non hai né tradito, né abbandonato
la donna e il suo casato,
scalfitture e solchi sono le tue rughe profonde,
dimostrano che il tempo passa sopra ogni cosa,
ti segna, marchia il tuo aspetto e fonde,
i ricordi affievoliti dalla tua immagine gioiosa.
come me, che ora accarezzo,
quelle mani potenti e di debole aspetto,
hanno trattenuto lacrime, mostrato disprezzo,
lottato a pugni chiusi per ottenere rispetto,
come te, che ora nel letto
magari sogni e rivivi un amore segreto,
viaggi in un mondo dove tutto diviene corretto,
vivi, corri, salti, rotolarti sull’erba non è un divieto.
vorrei così far parte del morfeo immaginario,
vederti andare a scuola, aprire il vocabolario,
vivace raccontare tra amiche di quel ragazzo,
che non sembrava ma di lei era pazzo,
bei fiori gli aveva portato prima di partire militare
ed un bacio criminale sulla guancia per non dimenticare,
vorrei incontrarti a quell’età, magari fingermi un uomo di circo,
un viaggiatore e provare a conoscerti in veste di ammiratore,
forse il nonno mi avrebbe già sfidato,
in un duello non armato
di quelli da cavalleria rusticana,
dove onore e passione si tramutano in lotta vana,
e forse, dico forse, avrei perso cadendo per terra,
stordito da un suo gancio sinistro
che in tempi migliori mi aveva già servito,
se tutto il piatto del pranzo non avevo ripulito.
così tra sogno e realtà
mi sveglio sul ruvido, ruspante, rovente tavolo silente,
col sorriso di mia nonna che mi si para di fronte,
mi dice di svegliarmi, le fettuccine son pronte.
“Ma ci sarà nel mondo chi, di mestiere, trova le parole giuste? Che le sa mettere, le parole, in un modo che quando gli batte il cuore a lui, lo fa battere anche all’altro?”[10].
I versi di Benedetto Sacco sono capaci di farci emozionare, scuotere, piangere e ridere, e tutto questo… è poesia. Ci troviamo di fronte ad un esempio di Poesia intesa nella concezione più totale e vera: quella che sa svilupparsi anche su un piccolo oggetto, come un tavolo o una sveglia, attraverso la loro animazione.
Benigni nel film La Tigre e la neve tiene una lezione di poesia e dichiara ai suoi studenti: “non scrivete subito poesie d’amore, che sono le più difficili, aspettate almeno un’ottantina d’anni… scrivetele su un altro argomento, sul mare, sul vento, su un termosifone”. Be’, qui la poesia non è su un termosifone (per ora), ma su una sveglia. Ci troviamo di fronte a un gioco stilistico e sensoriale, che vuol rallegrare e sperimentare i suoni delle parole, per creare dei ritmi musicali mattutini. Attraverso onomatopee e allitterazioni, si attraversa il contrasto tra il silenzio della sera e i rumori della mattina, che circondano il poeta al risveglio.
Oltre al teatro, anche la musica, e la musicalità del testo poetico, sono fondamentali nell’opera e nella vita di Benedetto Sacco.
Onomatopee mattutine
SHHHH Silenzio Serale nel Sonno Sogno Suadente Sollievo da Stupidi Sollazzi da Soliti Soprusi e da Strane Storte Serate… Sicuro Sento Sussurri Sottili Sentieri gentili Soffici Solfeggi, Santi, iStanti che durano Soltanto, il tempo di un… TRILLANTE!! TRillo! TRemendo! TRema e Trottola TRa le sTRette TRavi TRatteggia una linea TRemenda TRa il TRavertino del mio comodino che mi TORtura TRitando e TORturando il TRanquillo sonno infranto… SBAM! Che SBattimento SBotto e SBatto l’arto SPartano sulla SPinosa SPremitrice di SPeranze, SParisce sottosuolo SBattendo e SPirando tra le SPonde SPolverate SPerando di sottrarsi dal solito StuPro di una STramPalata sofferenza sadomaso al solo sorgere del sole e sospiro sereno per un secondo di STOP.
Per Poco Però Perché Pungente e Puntigliosa Plana Puntando il suo Pesante Peso Piangente e Puntuale la PIOGGIA
che Precipitando si Perde Precisa e Presente sulle Persiane Preferendo Picchiare Pesante su Punti di Parti Poco Protette Provocando Pesanti Passi Possenti come Passanti Pressanti in una Pressa imPortante… STanco e Stremato mi STiro e STridendo STrozzo lo STretto STinto lenzuolo e a STento SenTo STendersi lo STerno e STanchi STinchi STapparsi con uno STACK, STrido, STrozzando un sussulto… Silenzio si è SoSpeso l’aSSordante Stornello eSterno… Solo il FRUSCIO Fievole e Fresco di un Fausto Festante Fischio Fendente mi conFonde il VENTO e aFFieVolisce il Velo del mio Volto contento e Sembra Sia Sereno SollaZZo SilenZio Soltanto… TRILLA e Trema, TRema e TRilla e TRilla e TRema per una TeRza volTa alTReTTanTo il TeRReno TRamando una TRatta TRemenda come TeRRemoTo danZanTe ToRna la Tenace TRombeTTA Tenendo sTRetto il TeRRificanTe RiToRnello TRoTTeRellando TRoneggia e si aTTeggia soTTo il mio leTTo salTa e si Pavoneggia come una TRiglia nella Teglia quella TRoia di una SVEGLIA!
Può avvenire anche una travolgente anestesia sensoriale: si perde calore e si gela, ma, tramite la scrittura, ci si concilia con l’imperturbabile inondazione[11] del sentimento e del dolore, attraverso un gioco di chiaroscuri:
“Mi giro mi guardo il dito, non lo sento[12]
agitazione continua e cronica
rifiuto del corpo di trattenere dolore
epilettica malattia clonica
continua e sento che perdo calore
…
Freddo il corpo fredda la mente
chiari scuri, immagini che distinguo difficilmente
freddo il corpo luce ardente
del sole che illumina i volti della gente”.
È solo questione di tempo e tutto si risolverà: conservando il giusto calore, trovando un posto più comodo nelle relazioni affettive e trasformando i ruoli familiari, così che non divengano rigidi, tanto che si può anche rivivere al tempo dei nonni.
Per il poeta bisogna soprattutto godersi le cose belle della vita e dell’arte, all’uscita di un concerto e prima di un piatto di fettuccine
“ed ora buon appetito
il pranzo è servito”[13].
È solo questione di tempo
Tempo tenuto a denti stretti
tempo rimasto, lasciato andare, costretti
costanti ci siamo trattenuti nel frattempo
uniti da foglie spazzate dal vento
rimaste per terra perdute, cadute
dopo un’estate rosea di vedute
è arrivato l’autunno lasciando lento
all’inverno il compito di pulire,
spazzare, soffiando nel suo soffuso fluire,
il tempo di ieri, di storie andate e passate
spingendoci in destinazioni inaspettate.
aspetto o forse non devo
eppure qualcosa mi smuove
si muove e cerca di tirare, mi spinge, ma piove
o è solo un riflesso dello specchio in rilievo,
nel coraggio di un finito passato
mi accorsi che la strada del ritorno
era diventata l’alba del nuovo giorno
trovando quel sorriso sotto un berretto merlato,
l’AMORE mi accompagnò al tuo fianco
spinto dal vento di un inverno ormai stanco.
ed arrivarono i giorni felici e spensierati
che passavano veloci senza accorgersi
del vestito che di briciole piaceva spargersi
e ridevi
ed io pensavo di averli già ammirati
in qualche sogno, da qualche parte
forse in un film o in una foto datata
quegli occhi che catturano e pesano la portata
di ogni singola parola, di una giocata a carte.
sei arrivata nel periodo di virulenta oscurità
accendendo la luce in una stanza vuota
con persiane mancanti di motrice ruota
non avendo nessuna meta, nessun’altra metà
seduta su quel gradino di mattoni accantonati
tra le tue valigie invalidanti, veglianti
sul viso voluttuoso, vellutato da incubi dominanti
traspare un sorriso che mi aspetta,
perché il destino non è una linea retta
ma si prende al volo e non cambia direzione
mi sono caricato le tue valigie senza esitazione
tu hai preso me, le mie fragilità, la mia solitudine
ne hai fatto casa, protezione, potente incudine.
è stato solo questione di tempo,
aspettare il momento che finisse il maltempo,
per uscire nel vento all’aperto
ed incontrati all’uscita dal concerto.
[1] Hesse H. (1946), Il lupo della steppa.
[2] de Bernart R., Giommi D. (2007), Un gioco della mente: l’umorismo come strano interludio, Umorismo e altre strategie per sopravvivere alle crisi emozionali, 14 – 17 giugno.
[3] Sacco B., Figlio del mare.
[5] Benigni R. (2005), La tigre e la neve, Italia.
[6] Cronenberg (1981), Scanners, Canada.
[7] Sacco B., La mia figura sul muro.
[8] https://www.museodellamente.it
[9] Sacco B., Maiale.
[10] Benigni R. (2005), La tigre e la neve, Italia.
[11] Sacco B., L’amore ai tempi del coronavirus.
[12] Sacco B., Saper amare
[13] Sacco B., Maiale.