“Vorrei prenderti la mano e spiegarti
che questa è l’ora in cui si lasciano
dissolvere i fantasmi come meduse al sole
vorrei
toccarti con l’indice la fronte e
passarti la mia luce,
riempirti di luce fino a che
piegato sulle ginocchia,
prima di riversarti fuori come un urlo schiantato
tu non veda le margherite fiorire tra l’asfalto”.
(Chiara Araldi, Post fata resurgo).
Chiara Araldi – poeta e performer – vive nella piccola città di Mantova, dove è nata il giorno del suo onomastico nel 1983. Dice sempre di volersene andare, ma non si sa bene dove. Tendenzialmente ovunque, infatti è dappertutto e non è difficile incontrarla sui palchi di poetry slam di tutta Italia. Non è questo il luogo (poema + tre tragedie) viene pubblicato nel 2009 dalla Biblioteca Clandestina Errabonda, nella collana Samiszdat. Ha pubblicato la raccolta di poesia: Poetry Is Not Dead (diversamente dal punk. A quello occorre dire addio), con Edizioni La Gru (2018). Una volta, con un racconto, è pure riuscita ad entrare gratis al MiAmi. Ad oggi, s’è convinta di avere avuto una bella vita.
Con la poesia di Chiara Araldi si percorre una linea al femminile che attraversa le generazioni, un viaggio interiore fatto di ricordi e progetti per un futuro slegato da schemi o gabbie interiori, che permette la creazione di se stessi senza preconcetti.
Le speranze diventano la costruzione di un presente inatteso e di una vita composta da tutti i colori del mappamondo, dai calori e odori delle tradizioni familiari in cui ci si protegge e rispetta lasciandosi liberi. Le crisi del ciclo di vita della famiglia riescono sempre a generare qualcosa che incanta e commuove, come talee di rosa a maggio.
La poesia è composta da interni, da piastrelle e da cucine calde… ma anche da esterni, dai cieli stellati, sotto la luna, in cui viene solo voglia di ululare e si trova la forza incredibile e il coraggio che solo una madre può imparare.
ALABAMA
Più di tutto – ricordo – la lingua
fredda del marmo leccarmi le cosce
quando seduta all’incrocio del fato
come un fatto, ho preso coscienza.
Ricordo l’urlo stracciarmisi fuori
quasi di bestia finita in trappola,
sordo il tonfo dei pugni sul ventre
con odio, con rabbia, fino a vomitare.
Ricordo l’ombra mia inginocchiata
sotto la mappa appesa sul letto
il verde profilo di Sulawesi e Halmahera
che col mio dito ripassavo la sera,
l’Indonesia Timor e tutte le Molucche,
la vita che avevo in mente per me
libera nomade e sradicata.
Poi ho troppo fumato e dopo aver
risucchiato una bottiglia di whiskey
son corsa fuori a parlare alla luna.
La luna mi ha detto: guarda
è attaccata alla vita e al tuo
utero più di quanto mai tu abbia
creduto in qualcosa, una qualsiasi.
Ho capito che aveva ragione.
Così ho gettato l’ultima sigaretta
smesso di prendermi a pugni la pancia
ho strappato la mappa e con lei l’essere
in vita per me sola, senza vincoli
o altre piccole cose da proteggere
ho tirato un sospiro e mi son fatta madre
Avevo da poco compiuto anni 19
ed ero verde come i tigli a maggio
spaventata di fantasmi e premonizioni
vuota e piena e del tutto impreparata
ma MAI mi sono sentita
forte | nobile | coraggiosa
forse un po’ avventata, certamente
ma più di tutto io sono stata privilegiata
Sapevo che mia madre
avrebbe urlato di furore e terrore
come una vipera a cui viene tagliata la coda
E così è stato
Sapevo prima di vederlo
dello sguardo di mio padre,
come di qualcosa che sgretolandosi
irrimediabilmente si spezza
E così è stato
Sapevo che, nonostante tutto
Ci avrebbero accolto nutrito amato.
Che avremmo avuto i mezzi per essere, comunque, felici.
Per farla crescere, comunque, felice.
E così è stato
Questo è il pulpito dal quale io
posso permettermi di parlare
a te che proprio ora te ne stai
seduta al freddo di quelle piastrelle
a te che fissi il vuoto oltre il peso
di una scelta che nessuno dovrebbe affrontare
a te che sei me senza il beneficio di tutti i miei privilegi
a te io prometto: non ti lascerò sola
combatterò perché tu possa essere giudicata
soltanto dal Tribunale della tua coscienza
gli altri
che non sono me e non sono te e pure per noi
pretendono di scegliere
i politici a caccia di voti
i cattolici che si ricordano di esserlo soltanto per decretare i peccati altrui
i paladini della famiglia che l’estate si riposano
tra le braccia magre di bambine thailandesi
gli altri
i lupi gli sciacalli e ogni altra bestia quotidiana
io li terrò lontani
guarderò la porta
monterò la guardia
troverò un modo
per lasciarti, mia piccola,
tutto lo spazio che ti serve
a decidere per te stessa.
Chiara Araldi compone una poesia narrativa, scritta per essere declamata, possente come i tigli a maggio, odorosa di legni e profumata di rosa. Ci racconta storie di fragilità e forza, di violenze in agguato, di premonizioni e maledizioni, di sogni trasformati e rinati ancora più potenti.
MALEDIZIONE
Bella figa ha detto bella figa
Ti ha seguito
e l’hai sentito
oltre la cortina di trap trasandata che ascolti
un’ombra viscida che si allungava
sui tuoi piedi svelti di
bambina,
la mia bambina.
Ti ha seguito
e l’hai sentito
nelle ossa, come un arpione agganciarsi
al cuore o il presentimento d’un dolore,
nella testa i pensieri a rimbombare come tuoni
e tutt’a un lampo – brusca – la limpida coscienza d’esser fragile
a marchiarti lo sterno, per tutte le sere a venire.
Poi i suoi passi, ai tuoi passi, appaiati
il pelo aspro e osceno che – credimi- non perdono mai,
bambina.
La mia bambina.
Ti ha seguito
e l’hai sentito
mentre la strada s’accasciava tutta intorno,
all’improvviso deserta e stretta
più delle vene dove il sangue rallentato dal terrore rapprende
e tutte le finestre della sera alle 8
i telegiornali accesi
ed il soffritto per il risotto
così vicini
così inutili.
Il bosco ora conosce il tuo nome,
bambina.
La mia bambina.
Ti ha seguito
e l’hai sentito
scivolarti dietro alle scapole come
il bersaglio che ci portiamo addosso
noi, luminose
come la paura che ci rende
ciò che siamo
ciò che siamo è paura,
bambina.
La mia bambina.
Ti ha seguito
e l’hai sentito
in tempo
hai avuto tempo di iniziare
a correre verso una strada più grande
verso la porta di casa
su per le scale saltate a tre a tre
e nelle mie braccia dove ti scomposta e smembrata
con il mio cuore addosso e la mia anima attorno,
al sicuro, le mie mani sulle tue mani di
bambina.
La mia bambina.
Così ti ho tenuto la mano
ti ho fatto le trecce
ti ho fatto ridere e ripassare inglese.
Ora dormi e tutto sembra normale.
Nel mio buio, io non posso dormire.
Ascoltami:
Io ti maledico
col sangue gorgogliante di tutte le stelle
con qualsiasi anatema e lo sputo dannato
di ogni strega che è stata prima di me
di ogni strega che è, e parla con me
Io ti maledico
ed i tuoi sogni
io li verrò a infestare come
una ferita che non rimargina
io ti starò a guardare
mentre ogni notte soffochi
come un uomo in mare che non sa nuotare
Io ti maledico
E nel crepuscolo di pece del tuo cuore
quando ogni demone resterà silenzioso ad osservare
io ti verrò a cercare
e quanto è vera la mia carne, credimi
nei cessi squallidi del tuo essere bestiale
tu non avrai più pace.
La poetessa ci regala vicende di canzoni passate e di aironi, di lavori stremanti, di fatiche antiche e di lotte ancora attuali. Un tavolo e un uovo sbattuto a mano fanno da scenario, quasi fosse una rappresentazione teatrale, al dipanarsi del dialogo tra nonna e nipote, che ci porta tra le mondine. L’eredità familiare è composta da posture, da discorsi o silenzi e da tanto altro ancora da scoprire.
MONDINE
Montando a mano l’uovo sbattuto
mia nonna cantava a mezza voce
non sedeva mai, ma se lo faceva
era in punta, come se scottasse
come se il tempo a riposo l’avesse
rubato ad altro, che molto più
importa, come se ci fosse sempre
dell’altro di più importante che a
scordarsene si faceva peccato
Nei lunghi inverni penzolavo i piedi
rubavo fette della paradiso
volevo storie antiche e canti
dicevo dai, nonna dimmi del riso
(che non avevo ancora dolore
abbastanza per cogliere allora
lo sguardo appannarsi, ricordi
ammassarsi come schiuma sul mare
oltre il velo della sua cataratta)
Diceva: il riso bambina cresce
in file diritte, in righe strette,
come Bersaglieri, mica che è bravo
no, è che così ce lo abbiam spinto
noi con le unghie marce nella terra
inondata, con la faccia sfondata
di caldo e zanzare sotto i cappelli
nel campo a specchio solo gli uccelli,
il palpito lento degli aironi
grigi teneva il tempo dei nostri canti
Sì, era fatica. Ma la fatica
quella c’è ovunque, era anche qui, nella
mia casa, di pietra, di sangue
da tenere viva sana accesa
le cinque bocche come di sparvieri
almeno uno da far laureare
c’era da andare di notte a cercare
tra le osterie, per raccattare
gli avanzi del mese, strapparli al vino
alla briscola o a lei. Perciò
vedi, c’era fatica a Vercelli
ma quella fatica almeno era mia
avevo un padrone contro cui potermi arrabbiare
e lotte da combattere, che per tutti erano giuste
per quaranta notti chiusa in risaia
cantavo nell’aia, insieme agli aironi.
Io e mia nonna mangiavamo sole
in cucina. Poi arrivava mio padre
lei preparava la tavola grande
il lento passo del nonno riempiva
la stanza, parlavano poco,
fumavano tra le portate
la tele era sempre accesa sul tg.
Lei stava vigile, appesa allo stipite
come un cappotto lasciato a sgocciolare
portava il pane, versava il vino
mentre lavava i piatti nel secchiaio
cantava spesso canzoni antiche
di quei lavori sporchi e brutali
che a ricordarli le veniva nostalgia.
Chiara Araldi sviluppa e decora il tema della rinascita familiare e individuale: ci narra delle aspettative portate dalla primavera. Ogni stagione ci fa germogliare, riemergere per credere in sé e negli altri, in attesa dell’estate e dei suoi succhi maturi.
GELICIDIO
“Anche quando è incagliato
nella nebbia immota di gennaio
io riesco a sentire il tramonto
come un sintomo, o una simpatia
e assecondando gli insetti che mi brulicano dentro
esco a camminare, nel crepuscolo schiantato di freddo
Per strada l’umido ha incrostato qualsiasi
superficie calpestabile
tutti si affrettano nell’ultimo scampolo di giorno
intorno ai colli di pelo
e alle buste della spesa
bassi passeggini alti passeggini
hanno tutti dei bambini
e vomito sulla maglietta,
chissà probabilmente è quello
che gli tiene caldo il cuore
Al contrario del mio
meteoropatico
che silenzioso aspetta
chissà quale primavera
Non so mentire
e se me lo chiedessi ti direi:
guarda
per te io
ho solo carne
chilometri e chilometri di carne
morbida da mangiare
profumata da scartare
dai bozzoli di calzamaglie rapprese
e montagne a cui aggrapparti
appena prima di dormire
appena prima di ricordarsi che fuori piove”
“Ma se domani
il caso
che muove il mondo e le altre cose
per gentile concessione
volesse mai restituir l’estate
a noi appassiti
figli dell’estate
con la sua aria sfatta e gravida
di pollini e promesse
se sarà estate
per me ancora
io ti giuro
proverò
a cucirmi il cuore fuori dal petto
E ne farò talee
ed esplosioni
e crescerà come una rosa di maggio
e il rosso e il fuoco
e sarà enorme
e rigoglioso
e limpido
e sarà pronto
e sarà tuo”.
I testi sono composti da burro e pasta frolla e fanno volare il lettore lontano da casa, tra gli aceri in Virginia o in montagna in un bar di Similaun. Ci portano a passeggio tra piante, fiori e patate luccicanti: le parole sono avvolte di verde e dal bianco delle gardenie. Ci fanno udire canzoni alla radio, frequenze emotive non sintonizzate, e assaporare il gusto degli altri e delle “fragole e il rhum di Haiti[1]”.
UOVO
III
Se pensi a me, pensami che
sfoglio i rami rossi di un acero
in Virginia
nei posti selvatici dove l’umido ricorda
il senso del tempo
e delle stagioni
nell’acqua che ristagna
nel mio apparato riproduttivo
vorrei averti lasciato
almeno una cazzo di malattia venerea
o una canzone colonizzata
di quelle che passano alla radio nei bar
che quando la senti alle 07.56
mentre i pendolari si affastellano intorno e il lunedì ha fretta
di cominciare a raccogliere quello che male si semina
la canzone che parla di me passa alla radio
e tu la senti
tutto intorno si ferma
come la sesta glaciazione
tu pugnalato come un vecchio a Similaun
col cucchiaino del caffè sospeso
a mezz’aria
mummificato al pensiero
e il barista ti guarda strano
tu dici: non è nulla
ho incontrato l’amore
e l’ho lasciato scappare“.
Attraverso la poesia si attua un’azione catartica, la sofferenza viene trasformata in versi poetici per comunicare al lettore speranza e rinascita.
Tramite la scrittura e la lettura, infatti, si germoglia e si cresce trasparenti e lucenti come la luce. In eredità viene portata una progettualità di semina e fioritura, utilizzando le parole che curano e risarciscono le ferite.
“Ebbene, scavando con perizia da macellaio,
dietro ai fasci di muscoli rossi e al sangue solido
dietro ai nervi tesi e al grasso bianco ho trovato il mio Radio e l’Ulna,
nel loro confuso abbraccio,
si stavano accanto, vicini, toccandosi solo le estremità,
come noi”.
In coppia ci si scarnifica fino all’osso per trovare un senso: si scava fino a trovare se stesso e l’essenza delle cose.
“Io sono una miniera, la mia bellezza è nascosta
e va estratta
con cura e pazienza.
Quindi ho riso, ricucendomi il braccio
con un filo di raso rosso fiammante”[2].
La linea rossa è una testimonianza del dolore ma allo stesso tempo della guarigione, tramite l’utilizzo della poesia, che diventa un innesto che genera nella comunità.
La condivisione permette una rinascita individuale e collettiva:
“ti auguro
di trovare la tua
negli interstizi delle cose,
cercala tre le rime delle parole,
dietro al bancone dei bar,
nelle foglie che si schiudono di crudo verde,
trovala, qualunque sia, e facci l’amore,
ridendo immergi le braccia
nella bellezza che rimuove i pensieri
lascia che lei ti trovi, e ti dia pace[3]”.
Questi versi racchiudono tutte le tematiche care all’autrice: il valore delle piccole cose, della letteratura, della vita sociale e della natura. Tutto ciò si può considerare bellezza, necessaria per vivere in pace, trovare la felicità e pulsare come il sangue nelle vene. Chiara Araldi ci fa spaziare tra citazioni poetiche da Dante a Ungaretti e amare la sua poesia in forma di rosa.
[1] C. Araldi, Madman.
[2] Araldi C., A riveder le stelle.
[3] Araldi C., Post fata resurgo.