LA CIRCOLARITÀ DELLA CARDIOPOESIA
“l’uomo se noti è un impianto di luci
e di suoni e colori espansi dai sensi
è un sistema d’impulsi come di chip
dove al pensiero equivalgono i bit
assume i suoi watt unendo la spina
alla voce degli altri. vale a dire: la vita”
(Nicolas Cunial, Nota clinica).
Nicolas Cunial (1989) è poeta e performer. È stato fondatore e vicepresidente della LIPS (Lega Italiana Poetry Slam) dal 2014 al 2016.
Nel 2017 ha fondato il collettivo Fumofonico, con cui ha realizzato eventi e spettacoli di poesia, principalmente a Firenze. Nello stesso anno, ha creato il collettivo Novæquipe, con cui produce spoken music e videopoesia.
Dal 2018 gira con il suo spettacolo Black in/Black out, che è stato rappresentato in tutta Italia, in oltre quaranta repliche, e ha ricevuto il Premio della critica ErmoColle 2020. Lo spettacolo è ispirato dall’omonimo libro, uscito nel 2019 per Interno Poesia, e grazie al quale ha vinto vari premi.
Black in/Black out è un libro che si compone di tre sezioni: nella prima non esiste un soggetto unico, l’individuazione avviene in seguito, grazie all’incontro con l’altro, e nella terza parte ci si relazione a distanza.
La musicalità del verso segue il susseguirsi degli eventi, con una metrica libera o fissa. La malattia possiede un suo ritmo, che si solidifica in una metrica chiusa, con l’avvento dell’amore, che pone limiti e regole. Perso l’amore, si riacquisisce una cadenza più libera. Le relazioni permettono di determinare la propria identità, ma è necessario un distacco se non sono funzionali alla sopravvivenza emotiva.
La metrica diviene una metafora del legame, in quanto scandisce e sancisce, anima e accompagna fino alla fine: rappresenta la scansione ritmica della vita.
Nicolas Cunial è un compositore, descrive le umane sofferenze e come vengono vissute dall’interno e all’esterno: crea uno sparito sull’esistenza.
Indaga le tematiche dell’essere e dell’apparire, dell’input e dell’output premendo:
“un interruttore che non ha direzione
ma due dimensioni che fanno contatto
l’interno. l’esterno. lo scontro: lo sfascio[1]”.
La punteggiatura si rarefà diventando nota, melodia, marcia funebre verso una vita diversa: si scioglie in musica tramite l’utilizzo di termini pregiati e nuovi.
L’autore sensibilizza il lettore al dolore, facendogli sperimentare gli stati d’animo descritti: presenta dei… referti, in versi, che assumono il timbro delle angosce più profonde. Ci fa addentrare nei tasselli della psiche, nelle sfaccettature di un’unica faccia, che tutti accomuna: l’espressione della fragilità umana:
“qui non si spera in una via d’uscita
qui si sta al gioco. il gioco dell’oca
nell’abuso di dadi dipinti di nero
due giorni in avanti sette all’indietro
fino alla resa di chi tiene la conta
o del canto dell’ultimo giro di giostra
black in / black out
lascia così che vada male
solo se deve. non se lo vuole
lascia così che vada bene
solo se può. non se conviene[2]”.
Nero dentro, nero fuori: le sensazioni dolenti, interne, invadono la percezione dell’esterno, fino a rendere tutto nero: il poeta rappresenta una collettività contagiata, che trova scampo, cura e salvezza grazie alla poesia.
Scrivendo si schiariscono le idee, si calma il respiro e si svincola il cuore.
Il tormento interiore, che toglie la forza di alzarsi dal divano, è esposto ed esorcizzato in discotesta: equindi meglio far festa.
IN DISCOTESTA
la depressione è come una festa
che non ha fine. e in discotesta
va tutto bene ma fuori
fra le rovine/deserte/polari
il vento molesto non smette di dire:
«forse a te piace non stare bene»
(ma in discotesta
c’è la musica alta / spacca le orbite
che se ci parliamo non ci capiamo
ma in fondo che importa tanto qui conta
che la mia faccia dipinta a sorriso
non pianga solvente sopra la tinta
o mostrerebbe che sotto a ‘sto trucco
c’è un volto da guerra. quasi distrutto
e c’è
la spinta di testa per l’uso di droga
gocce e pasticche che pompano pace
che pompano voglia di
gioire/sudare/cardioalitare
per almeno un paio di ore
il tempo che vi è necessario
a scordarvi che muoio / pensarmi guarito
io che casco se spinto
da una parola / la forza di un dito
e c’è
la fatica per ogni mio gesto
per alzarmi dal letto / dal divanetto
per raggiungere il bagno lo sforzo
di salutare chi neanche conosco lo strazio
nel guardarmi allo specchio
e sentirmi alla vita fissato
dai soli magneti / della fame / del fiato
e c’è
il distacco dei piani
io nell’arena da solo e il mondo sul cubo
che si dimena nel buio che sputa
e vuole soltanto che io mi diverta
perché confonde l’abisso e la noia
così mi tira dentro le fila
come se questo fosse la vita
non il problema ma la porta d’uscita)
la depressione è come una festa
che non ha fine. e in discotesta
non va così male ma fuori
fra le rovine/deserte/polari
il vento molesto non smette di urlare:
«forse dovresti vedere qualcuno»
nulla è più vero
e quel qualcuno dovrei essere io
ma non mi vedo
e da qui grido che anche se esco
da questo locale / dal male
comunque sarei ostaggio del freddo
delle rovine/deserte/polari
e fra il morire sicuro di gelo
e ballare con l’aria da morto
non c’è differenza
quindi meglio far festa
aspettando che fuori l’inverno
o si consumi
o entri qui dentro
Lo scrittore fa riflettere sul rapporto che abbiamo con noi stessi e con agli altri, tra connessione e disconnessione, presenza e assenza, che convergono nel testo poetico e si integrano nella vita quotidiana, portando l’arte e trasformando il dolore in poesia.
MARCIA DELL’INSONNE
brucia l’ansia appena posi carne guasta sopra il letto
e ti raschia la nevrosi prima ancora del sospetto
che stanotte resti acceso nonostante la stanchezza
e ti vedi che già preghi una morte: la ricetta.
nella stanza catacomba non si infiltra alcuna luce
ma il silenzio d’oltretomba è crepato da una voce
senza timbro senza tono e ti canta un ritornello
così misero e bastardo che è più simile a un coltello:
tu non dormi / tu non dormi.
non ci badi così alloggi in un sogno che si presta
ma ti incagli nel sussurro che quel sonno lo violenta
e ti esplode si fa suono che ti bracca da vicino
così scappi col pensiero pur restando dentro il cranio
ma quel verso domicilia tra le pieghe del lenzuolo
e ti inquina dal cuscino con il fiato nell’orecchio:
tu non dormi / tu non dormi.
e ti giri e ti rigiri nella culla del delitto
te la sudi come in guerra strozzi sguardi sul soffitto
la condanna ti comanda: avanti: àlzati: cammina.
scatti in piedi e vai per casa a cercare droga buona
ma la scorta è già finita e del pusher non c’è traccia
vai di gocce giù a cascata quindi aspetti la discesa
ma ora in testa la granata non zittisce quella pena:
tu non dormi / tu non dormi.
e ti sventri con la doccia che ti ustiona pelle e nervi
non si calma nella pancia quel groviglio di serpenti
perciò voti la lettura prendi in mano la recherche
ma sei tu che perdi tempo per cui provi con la corsa
ma ti manca già il respiro dopo appena mezzo metro
perché il corpo non risponde ma meccanico ti spinge
verso il peggio della notte che conosci troppo bene
dove premi tasti a caso della tele che ti imbianca
che tu pensi sia d’aiuto ma ti annoia non ti stanca
che tra: film a basso costo / spot nocivi per il lutto
ti ripeti in catalessi le disnote del reato
tu non dormi / tu non dormi
e il cervello si ribella disconnette la corteccia
e atterrato giù nel coma rassegnato nel pigiama
ti accontenti della vista di un terrazzo fronte mura
ma la luce d’alba sporca ti cancella il tuo diritto
torni in casa via di corsa ti incateni forte al letto
giusto il tempo da bestemmia che indovina cosa suona?
è la sveglia che beffarda fa la stronza e ti domanda:
hai dormito? hai dormito? hai dormito? hai dor[click]
esci fuori: sia da casa che di testa ché al lavoro
non ignorano le borse nere e rotte sotto gli occhi
e si fanno largo i mostri col refrain che già conosci:
tu non dormi / tu non dormi.
e col bianco cartongesso della notte sulle guance
dici «grazie sì sto bene» che non sai cos’altro dire
nel frattempo nelle vene brucia l’ansia già in acconto
che ti aspetta come sposa nel tuo letto refrattario.
sputi resa dai sospiri resti privo di te stesso
non sopporti la sentenza perciò penetra un pensiero:
non ha senso questo andare vai vivendoti allo stremo
che stanotte quasi quasi te la dormi sotto un treno
In una realtà di continue illusioni e disillusioni, di solitudine e sconforto fra le rovine/deserte/polari, in cui il contatto a volte diventa panico e va in cortocircuito, tanto vale avere un… amico immaginario.
FRENI A SCHIZZO
sono solo. ma con Dario: il mio amico
immaginario. lui non esce né di notte
né di giorno e se ci riesce: mi rincasa
molto presto. dorme in testa ma da sveglio
sta in un circolo a passeggio tra il divano
e l’ippocampo. e da sempre. da ch’è nato
travestito da delirio. e ricordo ancora il giorno –
il suo primo compleanno – in cui mio padre
spaventato dal talento nell’avere un compare
così amorfo: mi porta in ospedale. e qui sbatto
nella diagnosi feroce che mi sfascia ogni ipotesi
felice: freni a schizzo m’hanno detto.
certo mica immaginavo che il mio Dario
fosse d’aria. sempre qui. sempre stato
alleato allacciatosi ai miei sensi in avaria.
e dall’oggi così a un altro per magia:
sì papà scompare. e lascia un vuoto.
quello stesso in cui abita anche Dario.
e io solo trovo schiaffi nel ricovero
quante botte quante pillole e la testa
che mi esplode è firmata dal dottore
certo Dario sarà informe come un padre
ma fa peggio l’uniforme da infermiere
che ha meccaniche da boia non di cura
lancia gli aghi a caso e abusa di punture
per la sottomissione. così scappo via
con Dario e divento clandestino
e voi contenti del controllo che vi stringe
sogni al collo mi guardate come un mostro
che si spegne solo a poco. ma l’ormone
dell’amore suggerisce scappatoie. labirinti
dice Dario. e al mio centro c’era Gioia.
lei parlava da uno schermo mi diceva
di comprare: assorbenti del dolore. ripeteva
quel suo monito proiettata da più monitor:
in quei giorni ho paura di sentirmi insicura.
amore mio non dirlo a me giacché t’aspetto
qui sul ciglio di un binario ad alto rischio
di suicidio. ma non salto perché Dario
preferisce te alla morte e suggerisce d’aspettare
ma sto solo ad aspettare sempre solo a dispetto
di ‘sti mesi che divoro finché Dario parla a noia:
è un peccato non esista alcuna gioia.
e di nuovo io da solo. mai nessuno che mi veda.
e la strada si fa casa ma nemmeno lei m’ascolta
ché le mani hanno fame: sono piene
non di pane a cui sogno dare un morso
non ho pane. ma monete fuori corso
che non comprano nemmeno
una dermocella a Dario per difenderci dal freddo
che ci crepa: questa pelle immaginata.
sicché solo. sempre solo. con l’amico immaginario.
lui ch’è l’unico a coprire queste voci: no
non in testa ma del mondo che rifiuta
di pensarmi una persona. queste voci
sermoneggiano: la tua vita non ha senso.
hai già perso. sei un inguaribile.
e io solo resto solo. sì con Dario.
che per quanto immaginario
sono io l’invisibile
In situazioni di crisi della coppia può accadere che “la protettività, l’indifferenza, il rifiuto, la vittimizzazione, la pazzia divengono prima attributi individuali costanti e poi ruoli stereotipati per un copione sempre uguale” (Andolfi, M., 1982). Può essere ricercato un clima di tensione, un crescendo di dramma, attuato tramite la scenografia del diluvio.
SCENOGRAFIA DEL DILUVIO
la muerte es necesaria
y la lluvia
no tan cara.
hai preparato questa morte in vitro
che già si è fatta scena nella stanza
e indossi la tua maschera che stilla
lacrime che fanno presa e morsa
nello stomaco. e mi attraversi tutto
ti depositi su in gola dove occupi
lo spazio che era tuo e che riempi
di vuoti costruiti in cardiocrampi
imbastendo col tuo falso colloquiale
un sipario che separa sguardi e mondi
come dire il senso puro della vista
da ciò che la conquista. ti vantavi
dell’ottimo raccolto di carezze salivari
e colpi a spinta e moti per lo schianto
sesso stantuffato per il solo vano gusto
di non sentirti sola se io me ne andavo
a calci in cuore a inseguire un senso giusto
del soffrire tutto questo. e sappi adesso
che hai detto che il tuo grembo è una tomba
di un codice genetico che di noi fu somma
prediligo lo starmene sommerso
sdraiarmi nel fondale di questo corpo stanco
della schiuma che ti pende dalla bocca
che se evapora condensa sulla mia
ma in te per te non è che ira fioca
e in me per te è grave malattia. vorrei
tanto trattenermi ma tu non lo permetti
e io così fradicio non riesco a stare zitto
ma già non mi sopporto in questo mio grondare
parole fabbricate in caso di conflitto
e cucite su misura per le tue feritoie. anzi
me ne vergogno nonostante la tua voglia
di un oceano di sangue. e provo doppia colpa
una per lasciarmi annegarmi in etanolo
l’altra l’implorare per una via di scolo. e prima
che la polpa all’osso non attracchi
cerco un molo a cui mirare / un faro che mi fori
questa nebbia statica sugli occhi
pronta a liquefarsi per farsi tua alleata
come se ‘sta carne non fosse già costretta
a dichiararsi arresa e levarsi in ritirata.
ti avrei anche perdonata ma non sai cos’è il perdono
hai eretto una scena amoralittica!
spento le campane messe a guardia e senza dirlo
messo in marcia le parole contro la mia grazia
e negata l’occasione di piantare tenda in mare.
vuoi costringermi alla rabbia! sembra che ti piaccia
se più ti urlo addosso tu più mi piovi contro!
e la fretta già ti crepa quella dolce boccadiga
da cui ti esce un’altra piena.
e ci si inonda ancora. in mezzo alla burrasca.
come se non ti bastasse tutta l’acqua che è caduta!
che mi costringe al nuoto aggrappato a un cuore d’odio
senza via d’uscita senza voglia di un esilio
dalla tua perfetta
scenografia del diluvio.
L’autore delinea un processo evolutivo di individuazione e separazione.
I confini di una coppia possono diventare rigidi e impermeabili, a causa delle sofferenze individuali, ed è fondamentale costituire un rapporto armonico con se stessi.
Il poeta ci propone dei modelli esistenziali, scene di vita personali, e una struttura contenitiva al dolore, grazie alle intelaiature del tempo e all’architettura del fuoco:
“le ore
sul divano di cui eravamo estensione
incapaci di alzarci dalle nostre paure
ci hanno reso un roseto ammantato di spine.
eravamo stupendi oltre il tempo e gli eventi.
ma se spezzo i momenti quanto fragili e secchi.
ognuno inquilino del suo rogo privato”[1].
La poesia è utilizzata da Nicolas Cunial come Poetry Therapy, cioè come autoterapia e formazione, testimonianza delle angosce dell’umanità. Con la scrittura sia crea un canto liberatorio e si balla con il foglio, per sciogliere le ansie:
“di norma io
canto o suono col bianco di un
foglio che sporco”[2].
È una poesia che erra e va da tutti, in quanto ognuno si può riconoscere in una tipologia di malessere, ma di questa nostra singolarità a scomparsa, che cosa mi resta?
I testi poetici offrono ad ognuno la propria ricetta.
I battiti ritmici del cuore rivestono e trasformano le parole, creando un nuovo linguaggio, dei neologismi e anche dei cardiologismi. La cardiopoesia si articola e pulsa come un inno. Ci addentriamo tra cardioespiazione e cardiosospiri,in un universo di cardioproiezioni, in cui cardioalitare con cardiocrampi, al cardioconcerto, e stare al mondo, in questo cardiomacello.
I versi sono ballate che parlano di ossa, cuciture, collassi e pixel di luce.
Il torace si svincola dai rovi, interni ed esterni, ed evita l’esilio: i detriti e la pelle diventano stelle, in orbita nel Planetario:
“c’è un momento in cui mi do conto
che sono contento: è quando disegno
i miei occhi più grandi del mondo
perché lo contengo nel nero del bulbo
e il bianco contorno è l’universo
in cui nuoto di notte se mi addormento”.
Nicolas Cunial stabilisce un contatto affettivo con il lettore, che si sente riconosciuto e commosso da parole scelte con cura e che curano. Scansiona la psiche e si insinua nella mente, illuminando e apportando delle innovazioni poetiche, che gravitano insieme ai legami senza spazio e tempo: in circularity.
[1] Cunial N., Architettura del fuoco.
[2] Cunial N., Purgatorio della voce.
[2] Cunial, N., Nota Clinica.