“Sempre lo stesso pop, sempre lo stesso rock
con lo stomaco perennemente chiuso.
La fisica delle onde illumina gli angoli
del mio cubo: mi sveglio, cerco
di avere la meglio sul cielo.
(una volta sconfitto svolto per caso
tra il puzzle di strade del centro
e mi perdo)
Mi isolo, davanti a un bicchiere “del solito”.”
(Max di Mario, Comparse a scopo di lucro).
La raccolta di poesie di Max di Mario Comparse a scopro di lucro indaga il ruolo del poeta e il significato attuale della poesia, su più dimensioni.
L’autore parte da se stesso e giunge alla collettività, attraverso un percorso irto di ostacoli. Assorbe gli elementi naturali (e soprannaturali) e mostra una nuova identità, composta di cocci. La frantumazione indica una riparazione ed è necessaria per il ritrovamento della propria personalità, per evolversi ed essere salvo.
Non è un ritorno al passato, ma un tragitto verso il futuro, consapevole di cosa fare dei propri ricordi e delle esperienze passate. La memoria è un atto ricostruttivo, che si contrappone al disfacimento. Il poeta approfondisce il tema del frantumare e riparare e la funzione distruttiva e costruttiva e li sviluppa seguendo il filo della crisi e rinascita individuale e della civiltà. L’opera entra in relazione con il passato e con il presente, con la tradizione e l’innovazione del testo poetico, dialoga con tutto e soprattutto con i lettori. Max di Mario interagisce con chi legge attraverso dei giochi e delle domande su problematiche esistenziali. La poesia è impiegata come antidoto contro i mali, è una pozione da utilizzare al bisogno per evocare il sogno giusto[1], necessario per migliorare la qualità della vita e la consapevolezza di sé.
Lo scrittore ci fa spaziare tra il verdeazzurro dei paesaggi (esterni ed interni) e il fuoco appiccato alle memorie, che diventa un rogo nelle campagne.
Le pagine diventano zolle o marciapiedi e odoriamo lo sguardo, dai monti fino alle periferie urbane. L’elemento della terra e del fuoco si uniscono all’acqua dei fondali oceanici (per ricognizioni agnostiche) e all’aria da percuotere e contenere nei polmoni, in attesa di ricostituirsi e di riposte dal cielo.
(semantica dell’estinzione)
Ascolta i miei occhi che ti mandano frasi.
Te le scagliano addosso, come piroscafi
pilotati da spericolati pirati
somali. Auspicando la Rottura.
Lo sgretolarsi dei pensieri troppo complessi,
quelli che cambiano per sempre l’equilibrio
di tutto, dopo i quali le cose
non sono più possibili. Perché sono andate perse
le istruzioni per l’uso.
Ma quelle per il disuso,
nessuno le ha mai nemmeno previste.
Riesci a decifrare le percussioni dell’aria?
I passi felpati delle mie intenzioni
di possedere una lingua per poterti parlare?
Di cose già dette, probabilmente.
Che tutto quello che diciamo
e solo un’aggiunta, una chiosa
a vecchi discorsi. Eloquenze fallite.
Camere d’aria,
baciate a sangue da matite affilate.
Io. Questa paura aderente.
Di non riuscire, di non bastare: sempre
compagni. Sempre fedeli
al nobile tentativo di tralasciare
ciò che è importante. Sempre crudeli,
come bisturi che si sono scordati
il piacere di sminuzzare la carne.
Vorrei sapere cosa farmene
delle cose che ho perso.
Lasciarle fermentare, oppure
bruciarle. Farne dei roghi immensi
nelle campagne. Ritrovo
di pazzi che scuotono forconi, streghe ed emaciati
corvi delle tramontane. Contemplare le braci
vorticanti come falene, estinguersi
in un attimo. Come milioni e milioni di esseri senza nome.
Durante qualche estinzione di massa primordiale.
E io seduto. Immobile tra gli steli
della piantaggine. A pensare
che non è poi così male, avere le tasche vuote
quando non possiedi nulla (ancora)
che valga la pena cercare.
Senza istruzioni per l’uso, si affrontano i dubbi. Senza fede e senza segreti, disarmati, si va, con le tasche vuote, verso un mondo tutto da scoprire, senza sapere cosa cercare.
Le siepi, da cui vedere un tramonto, rappresentano i limiti (così come la pelle confina l’animo) che non ci permettiamo di varcare, ma potrebbe essere fondamentale farlo.
(il viadotto di varlungo)
Pifferi in sordina evocati come
dal respiro di bosco
di una fiaba russa. Invece sono solo
gargarismi di auto sul viadotto,
le confessioni di un tirante
metallico che sussulta.
E io sono il mio sguardo
che percorre a tentoni le colline,
indovina i cascinali e le vigne
oltre il rumore delle autocisterne,
oltre i treni regionali e le riflessioni
dei canottieri solitari. L’acqua verde,
le biciclette orizzontali
sulla ghiaia.
Perlustro il cielo aperto, in cerca
di aeroplani e di consigli,
dei fossili dei pensieri dove il carbonio
ha intrappolato invecchiando
le vigliaccate e i sogni ostili.
I miei limiti,
come pesanti drappi
di un sipario, oltre i dolorosi orizzonti
dove non oso spingermi.
E anche se lo facessi?
Se la smettessi di accontentarmi
della promessa di spessore
delle stesse siepi, del terribile
profumo di limone dolciastro
degli stessi giardini, le stesse
maledette anfore piene
dello stesso maledetto vino?
Mi risponde lo stesso rumore bianco,
la stanchezza dell’asfalto graffiato,
del ferro e dei murales che sbiadiscono,
pronti per essere rimpiazzati. Sorrido,
ma mento a me stesso. Non riesco
nemmeno a imitare
l’incoerenza del mio mistero.
Una virgola di carne che si aggira
tra la sintassi della periferia urbana
alla ricerca di qualche segreto.
Che a trent’anni scoccati non ho ancora smesso
di pretendere l’inesatta risposta del cielo.
I testi sono lucidi, disincantati, dolenti, giunti alla consapevolezza di non sapere (nonostante tutto il sapere) domani cosa accadrà.
Un senso di inadeguatezza, staticità, decadimento e chiusura (metaforica delle persiane) pervade, quando ci si sente inabili (o ladri).
(inversione a u)
La strada. Un mito
che scorre a occhi chiusi
tra i colli. I nostri passi, raccolti
come mangime
dai piccioni distratti.
Le grondaie che piangono fango.
I balconi che cigolano
sopra le auto parcheggiate.
L’estate che passa, pittura di sonno
l’asfalto. Mi fermo all’incrocio
(c’è il rosso) cercando
di riprendere fiato.
Me la fa dimenticare, la rabbia
questo sonno. L’idea
di andare avanti
lo stesso. Comunque.
Di indovinare il sole attraverso
le persiane chiuse. Il mattino al di là
dei cimiteri di omissioni. Il meglio
è nemico del bene,
mi sussurra il kebabbaro, ghignando
prima di chiudere.
Io avanzo. Sono
ciò che rimane
della mia richiesta di aiuto
(mal formulata, a cui io stesso
sono immune). Sono
il cartello invisibile, a destra
della carreggiata. Che ti chiede,
con insolenza, di tornare indietro.
La paura impedisce di superare disfatte cosmiche, sotto una cupola di vetro e un Pantheon di divinità. È necessario tornare indietro per ritrovare ciò che è sfuggito e affrontare il timore di ricordare e vedere, perché
piangere per ciò che non vedi
sa lo stesso agrodolce
del non chiedere aiuto[1].
Si percorrono i meandri della mente del poeta, tra spiritualità e corporeità.
Si avanza nelle inquietudini per essere liberi dalle paure, sazi e per trovare la giusta misura, che è insieme agli altri.
La materia è assaporata con tutti i sensi, tra ricomposizioni di Dna, divinità e dialetto.
I pezzi (di se stessi, degli altri, degli oggetti) diventano cromosomi (alieni), sanpietrini, coriandoli, cenere, atomi: particelle che esprimono l’essenza della vita e di ciò che ne rimane, fino alle scapole e alle ossa.
Nei versi di Max di Mario si gusta il sapore della notte, il profumo del buio, il colore dei ricordi, con umorismo e tutto condito con un filo d’olio a crudo.
Il poeta utilizza la sinestesia e assonanze (e dissonanze), avviene un capovolgimento delle percezioni, un contagio tra i sensi e un’interazione con gli astri, a cui chiedere auspicio.
Cos’è che alimenta e riempie l’animo e il corpo del poeta?
Il bisogno primario riguarda un nutrimento, che viene ben digerito e genera vitalità. Basta un limone per spremere il succo della poesia (e metapoesia) e domandarci qual è il problema:
“Il problema della poesia
è che la poesia è anche il poeta,
o meglio, la poesia scritta (compiuta)
è la poesia che nasce
dalla poesia nella testa
del poeta. Mi spiego: il poeta
spreme uno sciame di pensieri come un limone
la sua “mano” che lo spreme è la poesia
il suo succo che ne esce è la poesia.
Ma le due poesie non sono uguali.
La prima è la poesia del poeta e
la seconda è la poesia della poesia”[1].
La prima poesia è nella testa dello scrittore e la seconda è nella testa del lettore, ovvero nell’interpretazione e nelle proiezioni sul testo poetico.
Le due poesie non si incontreranno mai, o forse sì, si incontreranno attraverso l’immaginazione, che unisce i pensieri di chi scrive e di chi legge.
Il poeta colma e riduce la distanza che separa scrittore e lettore: lavora sulla relazione, utilizzando l’uso della parola per sanare le crisi individuali e della civiltà, in un dialogo aperto tra passato e presente. La sfera personale si intreccia e si sviluppa di pari passo a quella collettiva, muovendosi tra i poli di tradizione e innovazione stilistica.
Come utilizzare le erudizioni e le acquisizioni metafisiche e fisiche?
Il lavorio mentale affatica ed emerge il desiderio di abbandonarsi e trovare conforto nella natura, diventando quarzo, ghiaia o sabbia. La mente, libera dagli apprendimenti e dalle cognizioni, vuole essere tutta da riempire, vuota e leggera come fili d’erba.
(stop-motion onto-teologica)
Non mi libero dei tuoi atomi
dei tuoi piccoli specchi di cielo
di quel vuoto rombante che generano
rotolando ai piedi dell’universo.
Non mi libero del sospetto
di essere stato frainteso, del concetto
di ego sospeso (tra parentesi)
tra la mia schiena e il muro mentre
dormo sul fianco, disteso,
nel profumo del buio. Che poi
puzza di chiuso, e di templi
di chiese lasciate a invecchiare
tra i salmi dei morti. Li senti?
(i respiri, i rumori dei cunicoli
in cui mi perdo)
Ho voglia di cambiare idea, ora
in questo momento, mentre scrivo
e metabolizzo e mi cospargo
di cenere in tempo per l’ultimo
mercoledì di macerie:
per le nozze delle moire e i funerali
di demoni faceti dove folle
vestite di bianco brancolano delirando le loro
lanterne spente.
Ho voglia di avere sete, ancora una volta.
Di vigne, di vita strappata alla terra
zolla per zolla,
sdraiarmi, zitto, sull’erba
frusciare in un verde dialetto
svanire nel nulla, vibrare
ignorando qualsiasi segreto.
L’essere umano si disfà e ricompone in parallelo al disfacimento della società: il poeta destruttura e ricostituisce per trovare l’essenza (di se stesso, degli oggetti, dei rapporti). Ci si perde e ritrova, ci si isola e si socializza, con lo stomaco chiuso o aperto, alla ricerca dell’ingrediente per vivere bene.
La riscrittura esistenziale e relazionale diventa una condivisione gruppale e una proposta di nuovi modelli narrativi. La progettazione di un mondo diverso parte dalla funzione civilizzatrice[1] della parola e dello stare insieme: si può rifondare un nuovo universo che integra la dimensione individuale con una socialità collettiva.
Grazie alla scrittura si può creare una nuova comunità.
La poesia è intesa come terapia per destrutturare e ricostruire la propria realtà interiore ma anche quella fuori di noi. L’uso della parola è la chiave necessaria per immaginare, comunicare e creare un dialogo in evoluzione: un linguaggio nel quale si può cambiare idea e rinascere (continuamente). Quello che si scopre è l’importanza dell’altro (a cui chiedere aiuto) e della condivisione.
Grazie alle nuove coordinale culturali e sociali il poeta offre nuovi modi di associare le parole, i contenuti e stili poetici differenti. Il processo creativo avviene “acchiappando il lampo” cioè con un’operazione di selezione dell’idea, che accende la miccia della poesia: la lampadina che illumina il pensiero, da cogliere al volo e lasciare inciso sul foglio, affinché possa muoversi nelle generazioni.
La stesura del testo poetico richiede un lavoro di analisi e di cura (inteso come prendersi cura dei significati, degli stati d’animo propri e del lettore), simile a un microprocesso terapeutico. Avviene un percorso esplorativo, intuitivo e selettivo, che lascia abbagliati.
L’ACCHIAPPALAMPI
Nel giro del baffo
passi al setaccio,
arricci e affini il senso.
Gusti i flutti,
scandisci il moto del verso,
traduci il tumulto.
L’idea slitta nel mento,
ondulata, in movimento:
il lampo incidi nel bianco.
Questo passaggio evolutivo rintraccia i segni del passato e ristruttura il presente verso il benessere e verso una nuova scrittura, che rompe la tradizione precedente.
Il ruolo del poeta è di fare una mediazione con la società: esplora se stesso e approda alla dimensione collettiva, che verrà approfondita nell’articolo del prossimo mese: Max di Mario darà vita ai Nuovi Archetipi e ci illustrerà come Inventare il futuro.
[1] Noto G., (2021) La parola crea il mondo. Dialogo intorno al Decamerone
tra cura della parola, psicologia e filologia in Home sweet home a cura di Lombardo A.
[1] Di Mario M., (2021) (maieutica applicata) in Comparse a scopo di lucro.
[1] Di Mario M, (teoria dei giochi) in Comparse a scopo di lucro.
[1] Vedi (Postilla del ricettario onirico, consumarsi a stomaco pieno).