IL FASCINO DISCRETO DELLA POESIA
“Ora non so dov’è
ma so che c’è
da qualche parte
un’anima che mi tiene stretto,
che quando provo ad andarmene
mi fa lo sgambetto”
(Gnigne, La meraviglia)
Daniele Vaienti, meglio conosciuto come Gnigne, classe 1984, fonda insieme ad alcuni amici Voceversa, gruppo con cui organizza e promuove eventi poetici (2017).
Pubblica la raccolta di poesie La notte passerà senza miracoli (2020), con la casa editrice Edizioni del Faro, e MOZZICONI insieme ad Alessandro Mazzotti (Pixa) (2022), libro di poesie illustrate. Ha una passione per il colore rosa.
E ha il dono e il talento di rendere poesia ciò che tocca: gli oggetti più semplici, come un cuscino, una coperta o le molle del letto, sono gli ingredienti basilari per comporre una miscela potente, che parte discreta e diventa esplosiva e universale.
RUDERE
C’è un debito da pagare,
l’affitto,
una multa sul cruscotto
dell’auto parcheggiata dietro la mia.
C’è sempre un debito da pagare,
che sia di carne, denaro
inchiostro oppure orgoglio.
Un debito è un debito
e va pagato
anche se non voglio.
L’alba è uno schiaffo
che mi sveglia dal sonno
e mi strappa una bestemmia dalla gola,
un giorno in meno
è un sollievo che non consola.
C’è da qualche parte
lei che parla e sorride a qualcuno,
che non sono io,
e ci sono io da qualche parte
che incontro e bacio ragazze
che hanno tutte
un enorme stupido difetto,
di non essere lei.
Mi sento come una vecchia casa,
di quelle che trovi a sorpresa
in mezzo ai palazzi nuovi
di un quartiere da poco terminato.
Mi sento un rudere
affascinante
ma disabitato.
Ci sono nel lavello i piatti
sporchi da giorni
oltre confine
una piccola rivoluzione
che avremmo dovuto fare noi.
C’è la coda alle poste
e una legge stupida che sa fare domande
e non dare risposte.
lo vorrei un paio d’ali
come quelle degli uccelli
a cui è proibito il volo,
per poter dire,
sapendo di non mentire,
che non è colpa mia
se ricado sempre al suolo.
L’autore parte da piccole cose, o da resti di cose, per comporre dei testi che arginano le difese: sono parole che hanno la forza dell’immagine, raggirano il pensiero e si fanno sentire nel corpo, assimilati nel sangue, come agenti interiorizzati apportatori di senso.
In psicoterapia si utilizzano le metafore o le fotografie per oltrepassare il linguaggio verbale e i blocchi che si possono erigere quando un aspetto risulta troppo doloroso.
L’uso della metaforastimola il rafforzamento del canale emotivo-affettivo tra terapeuta e paziente, creando empatia e alleanza (Brink, 1988).
Judy Weiser, psicologa e arteterapeuta canadese, introduce la fotografia in terapia, in un modo davvero speciale: fa parlare le fotografie e così l’immagine trova la parola. Nei testi di Daniele Vaienti invece è la parola che evoca l’immagine.
Attraverso l’immagine si può avere e dare accesso a mondi interni non facilmente accessibili e spesso difesi dall’uso del canale verbale (De Bernart, 2016). De Bernart (2005) ci insegna che vedere è importante quanto sentire, se non di più. Solo il confronto fra ciò che il terapeuta vede e ascolta permette una lettura complessa della comunicazione familiare, osservando le differenze e le incongruenze (De Bernart, 2016). L’uso dell’immagine riporta in primo piano il nesso tra i registri pre-verbale,
verbale e non-verbale, e tra l’intelligenza analitica e quella olistica, che la Metafora tradizionalmente coglie (De Bernart, 2019).
Daniele Vaienti utilizza metafore e similitudini per creare un flusso emotivo continuo. Il lettore lascia scorrere e contatta ciò che sente e non rimane attaccato ad un’idea o a un giudizio; concetti fondamentali nella Psicoterapia della Gestalt per integrare le discrepanze e agire in maniera consapevole e responsabile.
Le difficoltà relazionali vengono descritte e affrontate dal poeta, attraverso il sostegno di una collettività in cui fluire: diventano motivo per una rivoluzione privata e pubblica e ognuno di noi può dire Io sono cordite.
IO SONO CORDITE
Dicevi sempre
che avevo fiato solo per ridere e bestemmiare.
Tanto bravo con le parole
dicevi,
però al momento giusto non le sai usare.
Il fatto
è che ogni emozione è come cordite
che mi infiamma la gola
e di quello che provo non dico mai niente
neanche una parola.
Ti sei arrabbiata e mi hai aggredito
quella mattina che ti ho detto Ti amo
ma con la bocca ancora piena di dentifricio
proprio non l’hai capito,
che il mio era solo uno stupido artificio
per riuscire a rendere leggere
parole che non avevo la forza di sostenere.
Anche il mio non insultarti quando litighiamo
non ha niente a che fare con l’essere buoni,
è che le mie parole sono come lampi
che non hanno il coraggio
per diventare tuoni.
Della mia rabbia
vedi forse il pugno chiuso
però non lo senti il nervoso,
la gastrite
non capisci che io in gola
ho cordite.
Le parole che non dico
poi mi esplodono in testa
e tu da fuori vedi solo quiete
ma ciò che provo è tempesta.
A volte vorrei parlare
ma non riesco a fare altrimenti,
le parole prendon la rincorsa
e inciampano sui denti
vengon fuori tutte rotte
tutte storte
altre parole.
“Ti amo”
diventa
“non andare via”,
“Mi stai facendo male”
diventa
“cosa vuoi che sia”.
Le mie parole sono come passeggeri
fermi alla stazione dei pensieri,
che guardano i loro treni partire
senza trovare il coraggio di salire.
Spesso parlo tanto
è vero
scegliendo parole a caso
ma con cura
tra le poche di cui non ho paura.
La verità è arrivata mite
poi si è accesa come un petardo,
la parola giusta per me non è
cordite
la parola giusta è codardo.
In terapia problematiche basilari riguardano l’area affettiva, l’area sessuale e l’area delle relazioni sociali. L’autore presenta se stesso e ci racconta che in famiglia ha imparato a ricucire e a rimediare: a collocare le Toppe.
TOPPE
Da piccolo ero un bambino vivace
correvo da tutte le parti
mi arrampicavo sugli alberi.
Cadevo spesso e i miei vestiti si strappavano.
Mia madre
per non buttare via un paio di pantaloni al giorno
cuciva delle toppe sui vestiti.
Erano degli ovali di stoffa,
spesso di colore diverso da quello
della tuta su cui venivano cuciti.
A volte, addirittura
una di un colore e una di un altro.
Mia madre cuciva con ago e amore
dei nascondigli per le mie ginocchia scorticate,
rammendava con pazienza i miei vestiti strappati.
Ora sono cresciuto
non porto più quelle tute colorate
ma quelle toppe sì.
Quelle toppe
me le porto ancora dentro.
Sono toppe fatte di parole
che uso per recuperare i discorsi strappati,
quelle frasi scivolate su cose
che non avrei voluto dire.
Sono toppe fatte di carezze e consolazioni,
le uso ogni volta che il mio cuore cade
e si scortica le ginocchia.
Non ho ancora imparato a cucire bene
come faceva mia madre,
a volte le mie toppe si staccano
e si vede che la mia vita è rammendata.
Però di vita ho solo questa
non posso gettarne una al giorno
quindi continuerò a cucire e ricucire
toppe sui miei errori
non per nasconderli,
ma solo per provare
almeno
a rimediare.
Per Daniele Vaienti si può apprendere qualcosa di nuovo da qualsiasi cosa, se alleniamo la capacità di vedere oltre… si impara a fare affidamento sugli altri e a gestirsi in autonomia, in un universo in cui l’amore sfida le leggi della fisica e altera la forza di gravità:
HO IMPARATO
Dal lavandino del bagno
ho imparato a saper perdere
lui l’ha sempre fatto con stile.
Un ticchettio costantemente irregolare,
una sorta di jazz sottile.
Dall’impugnatura del bastone da passeggio
di mio nonno
ho imparato l’importanza di saper chiedere una mano
e soprattutto,
che non c’è niente di cui vergognarsi nel farlo.
Dal ronzio costante del mio vecchio frigorifero
ho imparato che sul lavoro
puoi brontolare quanto ti pare,
ma solo se il tuo lavoro lo fai, e lo fai bene.
Dal cassetto del comodino di camera mia,
che se ci guardo vedo solo calzini,
ho imparato che i sogni sono cose talmente grandi
da essere invisibili a occhio nudo.
Dal filo dell’aquilone con cui giocavo da bambino,
che poi un giorno si è spezzato e l’aquilone è caduto,
ho imparato che spesso
per sentirci davvero liberi di essere noi stessi
abbiamo bisogno che qualcuno ci tenga per mano.
Dal peso del suo corpo
tra le mie braccia
quando l’altra sera l’ho presa su
per portarla a letto
dopo che si era addormentata
davanti alla Tv
ho capito che l’amore sfida anche la fisica
perché io
con lei in braccio
ero più leggero.
Il poeta descrive le relazioni di coppia e di amicizia, che non muoiono, e si posson recuperare Dietro le palpebre chiuse:
DIETRO LE PALPEBRE CHIUSE
Aspetto
come sempre
il tuo ritorno
perché per il mondo si va
quasi sempre
per tornare poi
con un po’ di mondo in tasca.
Per ora chiudo gli occhi,
so dove trovarti
se voglio.
Ricordi?
credevamo di fare la rivoluzione
bevendo molotov
durante l’orario dell’aperitivo
seduti in qualche bar del centro
Tu dicevi che eravamo angeli,
sì
ma con l’inferno dentro.
Siamo cresciuti tutti storti
come certi alberi in montagna.
Abbiamo dato baci con gli occhi aperti
cantato canzoni con gli occhi chiusi
insieme abbiamo pianto
ma con gli occhi sempre asciutti.
Ricordi?
C’era piovuto il cielo sulla testa
e tu
fradicio
con il tuo ombrello
piegato dal vento
dicevi che eravamo come pozzanghere
immobili,
ma con il temporale dentro.
La notte a volte prendeva in mano un sax
ci suonava un blues di sudore e baci
cominciava a morderci senza farci male.
Noi continuavamo a spegnere mozziconi di sogni
sul fondo sporco di occhi senza sentimento.
Dicevi che eravamo luci
accese
ma con il buio dentro.
Eravamo insieme
belli e stupidi,
come quella notte
quando guardammo le stelle
franare dal crinale del cielo
sgretolando desideri
che non realizzammo mai.
Torna quando vuoi
o non tornare mai,
tanto lo sai
che mi troverai sempre
se mi pensi forte
appena dietro alle palpebre chiuse.
Ci spostiamo sui poli temporale/quiete, angeli/inferno, luci/buio e il lettore è percosso dalle poesie, che scuotono emotivamente. La riflessione esistenziale riguarda ciò che viene mostrato all’altro o tenuto dentro, come si appare e come ci si percepisce internamente, alla ricerca dell’integrazione che può avvenire grazie alla scrittura e al dialogo con l’altro, perché non siamo soli ma C’è qualcuno là fuori…
C’È QUALCUNO LÀ FUORI…
“C’è qualcuno che vive
rintanato nelle proprie debolezze,
chiuso a chiave dentro se stesso.
Qualcuno che continua a chiedersi
disperatamente,
a bassa voce, quasi in silenzio
se c’è davvero qualcuno là fuori.
La risposta a questa domanda è semplice e bellissima:
qualcuno c’è!
C’è qualcuno che non si tira indietro
nel momento del bisogno.
C’è qualcuno che si carica in spalla
parte dei tuoi problemi
e decide di percorrere con te un pezzo del cammino.
C’è qualcuno pronto a scavare
con le mani e fino a rompersi le unghie
per aiutarci a trovare quel tesoro
nascosto in fondo a ognuno di noi”[1].
Daniele Vaienti indaga la sfera personale e sociale, calandosi tra fantasia e attualità. Sarebbe bello immaginare un mondo dove non si conosce il significato della guerra e si scopre quello della parola amore (esiste).
IN UN MONDO PICCOLO SENZA GUERRA E SENZA AMORE
“Lei torna a guardare quell’uomo. Apre la bocca per
dire qualcosa sulla musica, ma ciò che dice è:
– Tu sei per caso un principe?
– Oh, che sciocchezza. Io sono un Generale!
– Un generale di cosa?
Un generale di guerra.
– Questa sì che è una sciocchezza, non ho mai sentito quella parola.
– Da qui sono tante le cose che non possiamo sentire.
– Comunque esiste la parola Guerra…
– E cosa significa?
– Non lo so, però so che questa è una divisa da generale di guerra, l’ha detto il signore che l’ha cucita per me.
È bellissima!
– Cosa, la guerra?
– No, la tua divisa.
– Grazie, anche il tuo vestito è molto bello.
– Non credo abbia un nome.
– Cosa?
– Il mio vestito.
– Non importa, le persone hanno un nome, i vestiti
di solito no. Tu come ti chiami?
– Giulia, forse Giulietta, non ne sono sicura. Il tuo
qual è?
– L’ultima volta una bambina mi ha chiamato Romeo, poi nessuno mi ha più chiamato per nome.
Ora potremmo chiamarci noi per nome… Ti va?
– Oh sì… sarebbe bello.
Intanto la musica sempre sottile continua il suo “loop”.
i due ballerini continuano a volteggiare, le loro braccia convergono l’una contro l’altra, ma anche questa volta
non si toccheranno,
anche se sembrerà così,
non lo faranno.
Fuori, in un mondo molto più grande, una voce adulta dice:
– Alice basta giocare, chiudi quel “coso”
e mettiti a letto!
Alice chiude il Carillon, che ha ereditato dalla nonna,
insieme a un vecchio libro di un certo Shakespeare.
La musica cessa, le luci si spengono e sui due ballerini torna il buio. In un mondo piccolo,in mezzo a una pista da ballo,
due amanti sembrano tenersi per mano,
e incuranti di cosa sia la guerra, passano la vita a chiedersi cosa sia quel sentimento
che provano l’uno per l’altra”.
La scrittura scorre immediata per inventare un nuovo mondo. Attraverso la descrizione di eventi, esterni e interni, si va col poeta alla ricerca di una connessione con gli altri. La poesia è un mezzo terapeutico per esprimere le emozioni più interne, che a volte inciampano nei denti. Ma basta una penna Bic, senza tappo, ritrovata per caso in tasca, per ritrovare l’energia necessaria per trasformare la vita in versi:
“Infilai la mano nella tasca destra dei pantaloni e oltre
all’accendino sentii qualcosa, come una voce che mi
chiamava da lontano.
Era una penna Bic nera e senza tappo.
Era una vecchia compagna di mille nottate passate,
con la mano sul foglio e la testa chissà dove.
In una penna, trovata per caso nella tasca dei jeans ritrovai la mia voglia di scrivere.
Se in quella tasca ci fosse stato solo l’accendino forse
ora starei solo fumando, ma non è andata così.[1]”
Daniele Vaienti crea una poesia autentica e potente, che trova voce nei Poetry Slam, in cui i testi vengono performati. Struttura i versi attraverso il canale visivo: riusciamo a visualizzarli e ci rimane in mente il Rudere, le toppe, la Bic.
Il messaggio che comunica è che, ogni giorno, grazie alla scrittura possiamo trasformare la vita in un miracolo, per la sua funzione catartica e relazionale, e tramite le sensazioni che sperimentiamo, da contattare e comunicare.
Sulle onde del destino il miracolo dell’amore avviene tramite le emozioni, la capacità di legarsi affettivamente con gli altri e di saper ridere insieme:
“Nel mezzo di questa notte che passerà senza miracoli.
Continua a ridere con me
e saremo noi il miracolo che attraverserà la notte”[1].
[1] Vaienti D., La notte passerà senza miracoli.
[1] Vaienti D., Piccolo racconto di un romantico che si era perso e si è ritrovato dentro la tasca dei jeans.
[1] Vaienti D., C’è qualcuno là fuori.
A Luca, Franco e Alex, operatori di comunità.