Avete presente quando leggete un libro, vedete un film, o una mostra, o qualsiasi altra cosa e i pensieri iniziano a susseguirsi caotici come in uno stato febbrile? Oggi mi è proprio capitato uno di quegli stati febbrili, appena uscita dal cinema Fiorella, appena uscita dalla visione del film “La stranezza ” di Roberto Andò. Si sono susseguiti immagini, ricordi, parole di qualcun altro. Vorrei partire da queste, che ho letto non molto tempo fa:
“Un fatto è, comunque, certo. Io, a Rimini, non torno volentieri. Debbo dirlo. É una sorta di blocco. La mia famiglia vi abita ancora, mia madre, mia sorella: ho paura di certi sentimenti? Soprattutto mi pare, il ritorno, un compiaciuto, masochistico rimasticamento della memoria: un’operazione teatrale, letteraria. Certo, essa può avere il suo fascino. Un fascino sonnolento, torbido. Ma ecco: non riesco a considerare Rimini come un fatto oggettivo. É piuttosto, e soltanto, una dimensione della memoria”. (Federico Fellini, Fare un film, 1980)
Sono parole a me molto care, che ho riscritto da qualche parte, e che oggi sono riemerse con forza. Fellini, in effetti, a Rimini non ci tornava troppo volentieri, lì dove veniva chiamato affettuosamente il “Pataca ”, lì dove abitavano tutti quei personaggi che animavano i suoi ricordi e il suo mondo grottesco. Nel film, Pirandello non torna a Rimini, ma a Girgenti, sua città natale, in un momento particolarmente critico della sua vita e della sua carriera. Il cammino improvviso e costretto al Camposanto, accompagnato da un becchino-attore dilettante e da un becchino-regista dilettante chiamati a curare il funerale della sua amata balia, lo conducono ad un rapido scivolamento nei ricordi impastati della sua vita in quel luogo. Impasto fatto di dialetto, di parossistiche tradizioni, di rumore di una folla familiare che forse non si ricordava più. E, pian piano, i suoi personaggi a cui sceglieva di “dare udienza” non più di 5 ore alla settimana, la domenica, dalle 8:00 alle 13:00, riescono a calciare il tappo e a strabordare dalla bottiglia in cui venivano tenuti a bada. Quei personaggi che si divertivano a giocare nella sua testa il gioco delle parti quasi torturandolo, chiedendogli pietosamente di trovare un posto nella sua memoria, nella sua vita, nella sua scrittura. Quei personaggi che stavano cercando Luigi, che da troppo tempo veniva chiamato Maestro e che forse a Roma aveva finito per dimenticarsi di tante parti. Quei personaggi che erano Sei personaggi in cerca d’autore . E con quelle parti che radicano a Girgenti, Pirandello ha lottato in teatro rovesciandolo dalle fondamenta al tetto, mentre con i fantasmi riminesi (e romani) Fellini ha danzato per mano nella scena finale di “Otto e mezzo”. Mi piace pensare che, in qualche modo, i nostri pazienti siano proprio alla ricerca di un autore, incrostati in personaggi che hanno bisogno di trovare un posto in una narrazione. Si aspettano che gli autori siamo noi, per riscoprirsi registi loro stessi.
Per me è stato così.