“Chiudi gli occhi
e svuota i pensieri
lascia solo la mia voce viva nella stanza
filo di fumo a sollevarti
dal peso
che hai addosso,
questo mondo tutto rotto
non a misura di te”
(Martina Lauretta, Ninnanotte delle cose rotte)
Martina Lauretta, classe 1998, è un’attrice e poetessa/performer ragusana.
Si diploma nel 2019, presso la SDM- Scuola del Musical di Milano e dal 2021 entra nel circuito del Poetry Slam L.I.P.S., qualificandosi alle finali nazionali di Firenze 2022. Alla pratica performativa, affianca l’organizzazione di eventi, come La poesia va in scena, rassegna poetica estiva svoltasi al Castello di Donnafugata, a Ragusa.
Collabora stabilmente con l’Associazione Culturale Mille Gru, di Monza, e si occupa anche di laboratori e formazione. È stata MC della seconda semifinale dell’European Poetry Slam Championship 2022, di Roma
Con Martina Lauretta intraprendiamo un percorso emotivo, interiore e metaforico, che svela le angosce e il dolore del sentirsi diversi, difettosi o fragili, in una società spesso spietata senza motivo e riscopriamo l’importanza di essere in DUE
“Caro Dio, ci sei?
Oggi ti scrivo per una cosa importante.
E ci credo, dirai, nessuno ti cerca se non deve dirti qualcosa di importante.
Ti scrivo perché mi sono guardata bene. Bene bene. E mi sono trovata un difetto”.
…
“Io lo so che con un cuore solo si può anche vivere. Che c’è gente che ce la fa. Lo so che è previsto.
È previsto dai libretti d’istruzione, è previsto da te, da voi. È previsto. Lo so. Io non ci riesco. Davvero.
A me l’altro cuore manca proprio, senza quello mi inceppo.
Sono un orologio senza meccanismo, un giradischi senza puntina, una bambola rotta.
Inutile, noiosa. Da buttare.
Che con l’altro mio cuore potrei fare qualcosa di grande, di importante, sono sicura.
Mi sento nata per due cuori, non per uno solo.
E ho cercato in giro come una pazza un cuore che si adattasse al me, che si adattasse al mio. Che si incastrasse, a me.
Mi sono trovata a vagare da sola, scalza, malfunzionante e a petto aperto.
E il problema di vivere a petto aperto è che il mondo ti entra dentro con estrema facilità.
Sì, ogni tanto entra qualche seme di felicità… ma in un corpo difettoso non cresce nulla, Dio… In un petto aperto entrano pioggia, vento, acido che inizia a marciare sull’anima.
E quindi credo che io stia distruggendo l’unico cuore che mi ritrovo. E se già vivere con uno solo è
difficile non oso immaginare cosa voglia dire essere senza cuore”.
È un piacere rispondere a questo splendido testo con dei versi di una mia poesia, che si intitola Due di cuori:
Gialla di peperone,
taglio via la buccia e inzuppo
le mani dentro al corpo.
Mi apro e scopro due cuori[1].
La tematica dei due cuori individua l’essenza relazionale della poesia: le relazioni, con se stesso e con gli altri, costituiscono il perno affettivo intorno al quale gravita l’universo artistico di Martina Lauretta.
L’autrice scrive una lettera a Dio e anche alla depressione: analizza il male della nostra attualità, assorbito nel corpo che ingloba le varie forme della sofferenza:
“Tu mi stai tenendo bloccata.
Mi costringi a liste che non riesco a rispettare. A una confusione non mia.
Mi stai mangiando anima e respiro.
Io volevo due cuori, non due cervelli.
Chimera.
Non sono io”.
Da un punto di vista psicologico, la conoscenza intellettuale può condurre a mutamenti solo nella misura in cui sia anche conoscenza affettiva [2]. Quando il dolore avvolge tutto, è difficile una buona integrazione e spesso un’area prende il sopravvento:
“Io sono chiara e limpida.
Sono sempre stata acqua. Che si adatta ma non si restringe.
Tu sei fuoco e non mi appartieni.
Mi stai bruciando e non basta la mia acqua a spegnerti.
Tutto intorno in fumo”.
L’acqua, per la poetessa, è un elemento naturale, vitale, che dà ossigeno più dell’aria, ed è una metafora della capacità di adattamento, senza snaturarsi.
A volte il malessere tiene bloccati e avviene una commutazione tra il somatico e lo psichico, e viceversa (Ruggieri V), che diviene una combinazione, un sistema, una reazione (Ruggieri V) al vivere a petto aperto[3]:
“È sceso alle gambe un mostro dagli arti come redini
a tirare indietro i tendini
impedire ogni passo[1]”.
Il lettore ha la sensazione di sentire la voce del corpo, che parla e mostra i suoi segni, le mappe interne. Si ha l’impressione di ascoltare e non di leggere: le parole si fanno suono, le trame narrate diventano ritmo e, dal varco, escono fuori dei testi che aspettano solamente di essere condivisi, risolti e divulgati nella collettività.
SERTRALINA
“La Sertralina per la depressione
-e per il mal di testa, ché la depressione da sola non è un buon motivo per prendere un antidepressivo -.
Una tazzina piena di caffè perché altrimenti sbadiglio tutto il giorno.
Qualcosa da mangiare anche se ho la nausea, perché altrimenti mi viene la nausea (e un’ulcera).
L’antistaminico per questa tosse che spero sia allergica (ma magari è frutto di questo clima tropicale e distrutto, che un giorno fanno 10° e il giorno dopo -2)
(o magari è Covid, di nuovo).
…
“Una birra per sembrare una persona normale
per non rispondere a domande scomode
perché mi va
ma una sola,
che poi con tutto quello che ho preso mi ubriaco subito”
…
“Dieci gocce prima di dormire
che altrimenti è un’impresa impossibile, con i pensieri appiccicati addosso, con tutti i caffè che ho preso, con l’ansia che è sempre lì, che non si è smossa di un millimetro”.
…
“Odio dover riflettere su ogni cosa che introduco nel mio corpo per mantenere un equilibrio che non c’è.
Odio questi farmaci che nel loro stesso nome dicono veleno.
Vorrei espellere tutto, sudare via tutto insieme, medicina e malattia, come si fa con la febbre alta.
…
“La prossima volta, vi prego, datemi un corpo nuovo.
Non è che non mi piaccia, mi sono anche affezionata.
È che proprio non funziona”.
La paura della dipendenza da farmaci è un problema tipico dell’attualità e della cultura occidentale e il desiderio di avere un corpo sano costituisce la controparte della questione. I versi di Martina Lauretta fanno riflettere sul rapporto tra corpo e farmaci e sul timore di instaurare una dipendenza che duri tutta la vita, riferendosi a una malattia cronica. La speranza di una vita quotidiana e di un futuro uguale a tutti anima gran parte dei testi, perché in un corpo difettoso non cresce niente.
Considerare le interferenze causate dai dolori fisici sul tono dell’umore, nella vita di tutti i giorni, significa riflettere sulle problematiche somatopsichiche, in un circolo continuo con gli aspetti psicosomatici, che è in divenire e per questo può essere trasformato. L’ipersensibilità corporea consegue al vivere a petto aperto: in un petto aperto entrano pioggia, vento, acido che inizia a marciare sull’anima.
Tutto ciò che viene contattato crea dolore perché transita all’interno senza filtri, non ci sono difese ma aperture, come se si esistesse senza pelle.
Percepire e patire per il corpo che risulta ostile, nemico e non funzionante, trova una risoluzione nella ricerca di un’integrazione corpo/mente e di un equilibrio, che non c’è perché questi farmaci, nel loro stesso nome, dicono veleno. In un corpo cronicamente malato la condizione di “equilibrio” è preclusa e, inoltre, i farmaci necessari in una cura spesso non si rivelano risolutivi, ma ricordano quanto siano veleno nei loro effetti collaterali, producendo nuovi disturbi.
Le produzioni mentali e artistiche favoriscono la stabilità. “L’obiettivo non è trovare la comodità o il piacere, ma trovare un compromesso possibile tra le varie situazioni cogenti, cioè tra quello che sta succedendo e quello che io posso effettivamente fare. Perciò, dal dialogo che si attua con le polarità, si può arrivare all’integrazione delle parti, perché in quel modo sono centrato su di me, sui miei bisogni e sulle mie emozioni, e sono integrato nel senso che ascolto le varie parti[2]”.
Come accogliere se stessi e i propri limiti, e trasformarli in risorse, quando ronza internamente la domanda perché io? Dietro la rabbia, risiedono dolore e paura, riferiti al malessere e all’urto con una società che tempesta di stereotipi, di messaggi e immagini in cui apparire perfetti e funzionanti.
Come già diceva Pasolini, la società italiana è composta dal popolo più analfabeta e dalla borghesia più ignorante d’Europa. Come accettare, dunque, la propria storia personale e integrarsi nella nostra società, senza sentirsi sperduti, inadeguati o soli?
La visione olistica della problematica verte sul costruire una quotidianità scandita da un ritmo che tenga conto del prendersi cura di sé e del potenziamento delle proprie risorse individuali, globali e terapeutiche:
“Per questo mi piacciono le cicatrici.
Perché sono le mie perle. Quelle che il mio corpo e la mia anima martoriati hanno prodotto ricoprendo il dolore con strati e strati di pensieri, di inchiostro, di lacrime[3]”.
Se mi muovo sull’asse piacevole o spiacevole, piuttosto che su quella giusto o sbagliato, e mi posiziono su “mi piace-non mi piace, sono in contatto con me stesso e centrato su di me e non sto dicendo niente dell’altro[4]”, sono fuori da una dinamica di giudizio, mi sposto per guardare i legami da una prospettiva differente.
Le sensibilità del corpo permettono di sviluppare e affinare competenze relazionali, creative e artistiche e di contattare ciò che sfugge alla massa.
Martina Lauretta non si arrende, scalfisce e ribadisce la necessità di vedere oltre: le fragilità vanno comprese e rispettate, non sono più un tabù da evitare ma vengono rielaborate, ancora e ancora, fino a diventare perle
“la conchiglia isola la ferita, il corpo estraneo, la minaccia, con strati e strati di madreperla, fino a renderlo inoffensivo[5]”.
La scrittrice fa riflettere sulla fase del ciclo di vita che riguarda l’ingresso nell’autonomia, in una collettività che spesso fa sentire al posto sbagliato, invisibili e soprattutto non funzionanti:
“Si è annidata nel ventre
paura fumosa di non riuscire a far crescere niente[6]”
Cosa significa diventare adulti oggi? Come attraversare il passaggio delicato verso il mondo del lavoro? Secondo Pietropolli Charmet (2000) i giovani attualmente sono alle prese con profonde paure e angosce correlate alla difficoltà di concludere il processo di mentalizzazione della propria corporeità sessuata e generativa.
Le giovani donne temono di essere sterili, cioè di non essere capaci di far nascere proprio nulla, e di essere condannate a imitare e a produrre comportamenti compiacenti[7] (Pietropolli Charmet G, 2000). Altre paure ricorrenti sono riferite al timore di non essere piacenti e condannate a diventare biologicamente e socialmente come la madre, intesa come una donna qualsiasi, priva di fascino, sottomessa e infelice. Pietropolli Charmet (2000) riscontra anche la paura di essere invisibili, di non riuscire a farsi notare, non tanto nell’area del processo di socializzazione quanto nell’area della costruzione sentimentale della coppia: la paura metaforica di perdere il TRAM
“È stato all’improvviso.
Non che non l’avessi visto arrivare
anzi
l’avevo aspettato così tanto,
forse un po’ troppo
come quando sei alla fermata e sul tabellone c’è scritto che il 14 passerà fra 8 minuti, stai lì ferma un
quarto d’ora e di minuti ne mancano
7”
…
“e io al limite fra la speranza e l’illusione
che facevo prima ad andare a piedi”
“aspetti un attimo a girarti
così, giusto per dare un po’ di tempo in più al destino”
…
“so io quanti anni ho passato alla fermata
quante persone ho visto salire su tram che pensavo destinati a me
e io ferma, ad aspettare”
…
“non credevo che un tram arrivasse in mezzo ad un salotto
non credevo di girarmi un attimo a controllare e trovarmelo in mezzo al petto
non credevo corresse nelle mie vene
eppure, era lì che ti trovavi già
nelle vene
sottopelle”
…
“Pensa che tristezza è stata
scoprire che siamo durati solo una fermata,
capisci adesso la difficoltà di scendere.
Dico da sempre
“Voglio un bacio che sia l’inizio del mondo, che a me la fine non piace”
e quel bacio
non eri tu,
continuo a cercarlo
però stavolta cammino
ferma non ci sto più.
La poetessa indaga le varie sembianze della sofferenza: i lividi o le cicatrici rimasti sul corpo e i dolori invisibili. La scrittura diventa una testimonianza di ciò che sfugge alla vista e alla comune comprensione:
“Io ho quaderni e quaderni pieni di cicatrici.
Quando il dolore evita la pelle, lo incido con l’inchiostro.
I miei fogli sono le mappe dei miei dolori invisibili”[8].
L’autrice rappresenta la mappatura interna degli stati d’animo. La geografia personale della sicurezza viene modificata dal malessere: in alcuni luoghi non ci si sente più al sicuro, anzi, in pericolo. L’esposizione al mondo senza una mediazione affettiva, nei momenti vulnerabili di passaggio, può far sperimentare un forte senso di solitudine e di panico (Francesetti G., 2021).
“Per strada mi manca l’aria.
Anche se devo solo attraversare la strada, arrivo con la tachicardia, il fiato corto e le gambe deboli.
Mi guardo intorno, mentre cammino giro su me stessa per controllare da tutti i lati.
Chi si ferma mi fa paura.
Chi cambia strada mi fa paura. Chi mi cammina incontro mi fa paura.
Chi mi guarda mi terrorizza”[9].
Secondo Francesetti (2021) la paura ha una radice in “quella solitudine di scoprirmi senza protezioni, senza filtri, nel mio essere esposto al mondo”.
Nelle fasi di cambiamento del ciclo vitale, passaggi di crescita dall’oikos alla polis[10], avviene una rottura nelle appartenenze, una separazione, e manca un rituale sociale di accompagnamento da parte della nostra società, che ci fa sentire sovraesposti ai pericoli. “La solitudine dà senso alla necessità della vicinanza dell’altro, una vicinanza che deve essere fisica e corporea” (Francesetti G., 2021).
Qui si inserisce la tematica dei due cuori: la condivisione, l’amore, la fratellanza sono antidoti alla solitudine e al panico e permettono un’evoluzione terapeutica
“Mi chiamo Sicilia, e vorrei una sorella
un pezzo di terra dall’altro lato del mare
uno specchio gemello per potermi guardare
in uno sguardo che sa
di questa storia di isola
di questa storia da sola[11]”
e artistica, alla ricerca delle proprie origini
“Mi chiamo Sicilia, e sono orfana.
La mia è una storia rossa dal suo momento zero
concepita in un giro di flamenco
in un moto di passione
gestata in un utero di camera magmatica
il rosso della mia storia me lo sono portata addosso”.
Il rosso, il magma, hanno generato ma possono mandare tutto in fumo… in caso di incidente non rimane che controllare la SCATOLA NERA
“La mia scatola nera
si è aperta
e ha lasciato scappare
i demoni registrati negli anni
i titani
fuggiti dalla loro gabbia ultraterrena
la mia scatola nera
hanno fatto del mio corpo Olimpo
scalato infestato colonizzato le macerie
come gli inquilini invisibili
di un cantiere abbandonato
promessa di un futuro già sconfitto
senza battaglia saetta occhio di Atena o bellezza a proteggerlo
quel giorno
gli dei
Erano altrove”.
Il lettore spazia in una cornice sociale dolente, amara, senza la protezione delle divinità, in cui le regole sociali sono guidate dal caso.
“Non preoccuparti poi di lasciarmi al margine
della strada della vita delle pagine”;
ci ritroviamo affettivamente e simbolicamente al margine della strada, in una Milano sconfinata, sfiancante ma anche magica che è riuscita a far brillare il cemento e spero che faccia la stessa magia con me, nera opaca di onice.
La paura, il dolore e la rabbia sono presenti ma anche una speranza feconda, creativa e relazionale. Attraverso la capacità di riparare, possiamo valorizzare le cose rotte e migliorarle, possiamorecuperare i rapporti con gli altri, prendersi cura di sé e dedicarsi la… NINNANOTTE DELLE COSE ROTTE
“ninnanotte a tutte le crepe
ai litri di vino&amore riciclabile usati per riempirle
alla poesia
le notti di risate
e tutte ‘ste stronzate
ché a riempire le crepe con l’oro ci vuole arte e maestria
e non stiamo in Giappone
siamo in una Milano che è riuscita a far brillare il cemento
e spero che faccia la stessa magia con me,
nera opaca di onice
mi sono strofinata fino al sangue per brillare
ho scambiato il mio corpo per la patina da grattare via
e ora mi trovo mollusco
in cerca di una conchiglia”
…
“Ninnanotte delle cose rotte
dei carillon inceppati
dei piedi di piombo sui cuori di vetro,
di città troppo grandi per i nostri piedi stanchi
di lavori che ci vedono succubi
grigi e insoddisfatti
violenti o nolenti
lontani dai giochi
in cerca di una rotta
persa
tra i neuroni
specchio
delle nostre
paure”.
Martina Lauretta sa generare: concepisce i due cuori della poesia e individua le imperfezioni e le fragilità, che traspone nel foglio come un valore.
Utilizza la scrittura con una funzione affettiva, catartica e terapeutica: necessaria per evolversi, consolarsi ed essere più leggeri. La poesia diventa simile ad un’entità relazionale, una voce cara da avere accanto nei momenti difficili, ma anche in tutti gli attimi da immortalare. La poetessa trasforma il malessere in arte ed ogni sera ci dà la Ninnanotte:
“Ninnanotte ad un bacio
ad un modo per dire davvero
Chiudi gli occhi
e svuota i pensieri
lascia solo la mia voce viva nella stanza
filo di fumo a sollevarti
dal peso
che hai addosso,
mia piccola bimba d’inchiostro”.
[1] Lauretta M., Scatola nera.
[2],8 Molino P., Bernardi E., Psicoterapia della Gestalt. Principi generali e applicationi in Home sweet home.
[3], 7 Lauretta M., Inciso. (4 e 11).
[5] Lauretta M., Inciso. (4 e 11).
[6] Lauretta M., Scatola nera.
[7] Questa paura dell’inaccessibilità al mondo materno appare costruita culturalmente, come conseguenza alla liberazione dei costumi sessuali, all’uso della contraccezione e all’enfasi sulla realizzazione sociale, piuttosto che attraverso la coniugalità e la maternità (Pietropolli Charmet G., 2000).
[8] Martina Lauretta, Inciso. (4 e 11).
[9] Martina Lauretta, Inciso. (4 e 11).
[10] Oikos è la casa, il luogo di pochi intimi, e la polis è la città, il luogo dei molti.
[11] Martina Lauretta, Sicilia.
[1] Papp F., Terra rossa.
[2] Fromm E., Suzuki D., De Martino R., 1968, Psicoanalisi e buddhismo zen.
[3] Raggi A., Comelli F., Riflessioni cliniche su psiche e immunità, in Home sweet home, Lombardo A., (2021).