“Corron così le tue ossa preziose
son trame contorte
di acchiappasogni:
han trovato e salvato me,
che non so cos’è la leva,
che non so dove stare”
(Diāvoli, Incantesimo di ritorno).
Diāvoli (Eleonora Davoli) nasce in un freddo giovedì di Gennaio, a Modena.
In poche parole: scrive, canta, partecipa e resiste per condizione esistenziale.
In più parole: lavora dentro e fuori scuola/associazioni/enti vari, come tecnico dell’apprendimento, assistente per l’autonomia e la comunicazione, educatrice professionale e di laboratorio, e libraia. Si occupa anche di ricerca sperimentale, scrittura, poesia performativa e musica.
Crede nella potenza della prossimità, dei progetti di comunità aperta, dei movimenti umani a contrasto delle prepotenti istituzioni totali.
A settembre è uscito il suo ultimo libro Polpette Randage (2022), una raccolta di poesie che vuole prendersi cura di sé e dell’alterità e anche un po’ del mondo, proprio come fa la poeta nella propria vita, cercando di dar voce e ascolto a storie misere e vere. “È molto importante che il terapeuta riconosca che là dove c’è vita c’è follia. La vita non è l’adattamento sociale. La vita non è l’ora di terapia. La vita non è in nessun contesto interpersonale. La vita è l’espressione della totalità del sé. L’individuazione interiorizzata di una fierezza creativa e personale. È la negazione della schiavitù nei confronti della razionalità del conformismo, dei vincoli della cultura, del tempo, dello spazio e dell’angoscia” (Whitaker C., 1990).
Diāvoli fa proprio questo, rompe gli schemi, trasforma le ingiustizie in poesia e la morte in vitalità.
In questo primo testo, la poeta fa riferimento alle foglie delle mimose, che si contraggono ad ogni nuovo spostamento. Poi la pianta si rilassa e apre le foglie, finché il prossimo trauma giunge e si ricomincia da capo.
La scrittrice non sostiene l’imperturbabilità, simpatizza per le mimose, per la loro intelligenza strategica e mai indifferente. Si è sentita mimosa per lungo tempo; poi, durante un viaggio, ha imparato a vivere diversamente gli spostamenti e i cambiamenti personali. Ha smesso di aver paura di non riconoscersi, quando in un pub di Galway, ha ascoltato per la prima volta il canto folk Mo ghile mear.
I celti lo dedicavano agli eroi senza pronosticare vittorie o perdite: un semplice e puro “buona fortuna, amico mio”. La Mimosa diventa una metafora di uno stato d’animo ed è un riassunto della vita dell’autrice fino alla partigiana che è oggi: resiste, aspetta e va avanti verso gli obiettivi che realizza, come la MIMOSA
‘Sé mo laoch, mo Ghile Mear,
‘Sé mo Chaesar, Ghile Mear,
Suan ná séan ní bhfuaireas féin
Ó chuaigh i gcéin mo Ghile Mear.
Ho dieci anni.
Sono una mimosa appena sistemata.
Dentro questo vaso nuovo,
mi adatto, mi stiro e mi commuovo
ma, qui sopra, non ci son mai stata.
E, in realtà, ho paura di esserci arrivata.
Perché all’inizio non me l’hanno raccontato
che una volta abituata,
che una volta apparecchiata,
mi avrebbero accoppiato
dentro un quadro di Chagall,
e nei tappeti agguinzagliati di Matisse,
come un drago ammaestrato.
Ho paura del silenzio
che mi hanno regalato.
Mi è nata poi una rabbia piena d’ombre,
figlia del precariato, occhi azzurri e stanchi,
rocce argillose dilavate in calanchi,
un sentimento-pleistocene
che tiene le stanze sgombre.
Ho paura dei pranzi coi parenti,
ogni dicembre.
Mi han spostata troppe volte,
tra case e davanzali,
in tristezze abissali
ogni volta dissepolte,
tra rituali halāl
e monumenti di coulisse,
allo scopo di evitare
esperienze a briglie sciolte.
Ho paura di dormire al buio, tutte le volte.
Alla scuola delle piante si parlava poco.
“Signora, discute troppo spesso”, l’insegnante,
“È creativa, ma arrogante”
perché io portavo i libri
e lei mi dava un gioco.
Ho solo paura del prossimo trasloco.
Nelle serre, invece,
ho sofferto e riso meglio:
tra orchidee, camelie e rose,
girasoli e calle esplose,
ho creduto in un risveglio
e raccolto le mie armi,
imparato ad infuriarmi,
riscoperto quel che voglio.
Ho paura del nulla di cristo,
del suo imbroglio.
…
E adesso
che ho raccolto il mio perdono
dal cestino dei rifiuti,
pieno di musica
e di uomini che mi son piaciuti,
adesso che ho trovato il mio suono,
mi stacco con pietà
da chi pensa ch’io sia ferma,
da chi vuole che produca
anche ad anima rafferma,
da chi mi vede seria
e crede che non mi emoziono.
Non ho più paura
quando tutto è calmo e io risuono.
Non ho paura qui
di chi mi vede come sono.
E nell’immobile mi evolvo
invisibile e fastidiosa,
intelligenza di mimosa.
Al disagio del mondo mi chiudo e dissolvo
questo sistema adiaforo e sguincio,
che non ci ascolta, e insisto,
nel desiderio di conoscere io resisto
e se mi sposti, io aspetto… e ricomincio.
“Maestro, ma cos’è la poesia? È tutto quel poco che resta quando tutto il resto è morto” (Montale E.). Con Diāvoli la morte non fa più paura, non blocca né congela emotivamente perché viene rielaborata e integrata nella vita come risorsa e, come solo lei sa fare, il dolore viene trasformato in energia, in un inno alla lotta, alla costruzione creativa di legami e di azioni per cambiare l’ambiente intorno.
La poeta sovverte il ciclo vitale degli eventi trasmutando la morte in vitalità, rovescia le convenzioni per generare un circolo infinito di rinascite spirituali in cui trasmigrare, che ogni giorno dall’alba ricomincia.
Il testo Fallisci et impera narra la storia di un caro amico, morto nei fossi di provincia dopo la fuga da una comunità terapeutica. Il freddo, quella notte, ha avuto la meglio sul suo corpo, pieno di farmaci e cocaina:
“sono il malessere, sono il disagio,
cane randagio che a bocca piena
divora menate in cancrena,
sono il presagio di morte che abita il fegato,
corro rabbioso,
soprabito in mogano,
cuore peloso e imperfetto,
sono un unico grande difetto”
Dopo il riconoscimento, le è stato consegnato un messaggio indirizzato a lei, un foglietto che le ha fatto cambiare la visione su molte cose, musica inclusa.
Dopo questa esperienza di vita e morte, solitudine, follia e tempo hanno acquisito per lei un nuovo significato: gli ultimi sono diventati la sua famiglia, il lato affine della barricata, il senso del lottare.
“E allora
spero che senza paura
qualcuno lo porti a me, un fiore,
come una lettera d’amore
che posso interpretare come voglio
che mi tolga dalla mente
il tuo cadavere d’albero spoglio
quando penso ai fossi della provincia,
dove ancora,
senza di te,
ogni giorno
dall’alba
ricomincia[1]”.
La scrittura, la creatività e la fiducia riposte nella vita di ogni giorno e nel proprio lavoro permettono a Diāvoli di prendere posizione dalla parte di chi vive sulla propria pelle la sofferenza psichica, procurata da un sistema sociale che punisce ed espelle l’alterità scomoda: i poveri, i matti e gli stranieri.
Un ragazzo si è sentito male alla stazione centrale di Milano, casa sua di fatto, e diventa motivo per fare poesia: la sua vicenda viene immortalata nei versi, come il passante che fotografa e fa video mentre i medici cercavano di soccorrerlo, senza successo.
Da questo episodio, nasce il testo Bestia, che racconta l’indifferenza, la rabbia e la solitudine contemporanee, in un presente nel quale l’anestesia emotiva non si ferma di fronte a niente e trasforma l’essere umano in una BESTIA
“E guarda che non è Milano
a spersonalizzare
tutte queste lumache
nei loro gusci avvolte,
non è Milano
a farle sbavare sulle ringhiere,
non è Milano
che mi fa incazzare,
che mi fa stare in silenzio:
sei tu, umano”
Attraverso la poesia, Diāvoli denuncia la condizione dell’essere umano, sempre più degradata e disgregata. Ma che cos’è la poesia? Dome Bulfaro risponde che “la poesia è un ponte verso: verso di te, verso l’altro, verso l’altrove, reale o immaginario che sia. La poesia è un ponte in costruzione”.
L’autrice costruisce ponti e realizza legami. Il libro Polpette Randage, da cui sono estratti questi testi, ne è un esempio. Il titolo è nato da una passeggiata a Milano, città che appallottola e fa rotolare per le strade e nelle piazze “errabonde e pellegrine insieme, a cercare la vita e i cimiteri”. È un sentimento inedito, quello che Diāvoli vuole trasmettere: “giocate, restate vive e vivi, ruzzolate e precipitate, non fermatevi mai che al massimo cotone, disinfettante, cerotto e via[2]”.
“Mi faccio una doccia media
impermanente
che si mangia le cose
che aggredisce tutto
il niente che mi metto
quando arrivo a casa
Ho una felpa da usare proprio lì
e in tasca le trovo dei fazzoletti
rigidi di lavatrice
che mi fanno male all’anca
Mi sdraio sempre così
a pancia in giù
Poi mi lamento
ma è colpa mia
che non vado a letto elegante
se nel mondo
non ho potere contrattuale
Presidente
me lo dà il permesso di fare
la commessa vestita da me stessa?
Ah no?
Milano è un sogno antico
che non ho i soldi di comprare
perché piazza duomo è gratis
ma io non ho potere contrattuale
E allora, sai cosa,
mi ti siedo nell’angolo
vicino ai piccioni
e brindo con loro
polpetta randagia
che non sono altro[3]”.
Il messaggio che il testo comunica è un’esortazione all’espressione libera di sé, una considerazione delle problematiche della nostra attualità, sull’apparenza e la consistenza: avere o essere? Con umorismo, la poeta fa riflettere sull’essenza che risiede nelle cose semplici e sull’importanza di brindare a ciò che viene ignorato dal potere e dagli incastri economici. È piena di risorse complesse e interrelate e risuona di energie, come un VULCANO
“Sono un vulcano in piedi
non mi sdraio mai
tranne per mettermi lo smalto
tranne quando mi ribalto
dalla pancia alla lingua
e i piedi restan lì
e la testa non cambia più di così
…
Sono un vulcano pallido
che continua ad eruttare
non si riesce più a fermare
ma prometto
che ho segnato tutti i compiti,
che ho preso molti appunti
che mi scappa qualche rivolo
di lava rossa e nero bollente,
ma non sui tuoi piedi”.
La scrittrice vive di relazioni costruite tra accoglienza e condivisione:
“Ti ho trovato lì seduto
come un’ombra nera e vera
di lacrime urbane
e di gas primordiali, il cielo:
è un vestito che copre le umane rovine
sintetico e vivo,
un etra senza città
che travolge le ossa
tra colli di boa
e corse per soste allentate.
L’anima è a galla col cuore a picco
in questi corpi fatti a pezzi
e glaciale
ti ho trovato a mani in tasca
assente
tra tessuti abbandonati e gatti stanchi”.
I legami costituiscono un dialogo di poesia, un coro che si espande nella collettività e
diventa più luminoso quando si sta vicini:
“Ora riluci intero
e t’infondi come malva:
blu e indaco pensiero
sei d’acqua e bolli
immenso e nudo
a cuore aperto
al buio.”
Le connessioni fondano un perno saldo di solidarietà, che permette di gestire e convivere con i propri demoni, trovare un posto in cui sentirsi finalmente a casa
“Tu scappi
da incubi e supermercati.
T’impacchetto un corpo nuovo
da portare più leggero
e tutto perché so che ti ho trovato
per chiederti come stai
se hai passato una bella giornata;
e i tuoi demoni riposano,
non vogliono tornare.
Li cercavo e mi han trovata
che esistevo
che mancavo
che ero rotta e basta
ma non gli è bastato.
Sono a casa”.
Una volta lì, alla ricerca di un centro tra bisogni e desideri, possiamo esprimere tutta la personalità. Scrivere rappresenta uno strumento per denunciare ciò che non va, narrare storie, cogliere istanti di bellezza e lasciarsi andare al… ROMANTICO POST-INDUSTRIALE
“Se scrivi qualcosa
non muore niente,
come il mio senso romantico
post-industriale
che sopravvive alle ciminiere,
alle fragole ingrandite,
alla pubblicità della banca.
Pile scadute che baciano
il fondo del cassetto
e rodono, grattano opache
impiallacciature vergini;
insieme ho delle viti raccolte,
dei chiodi che uso per le mele
e ci faccio il succo
al ferro originale.
Risparmio sulla salute
come insegna la ciminiera,
risparmio sul benessere
come dice Italia uno,
risparmio sul sonno:
da sveglia sento meglio
la voce del padrone
che mai promette
e sempre sdegna,
che piega il presente
in comode rate
e lo fa comprare come nuovo,
lucidato insieme ai giochi
di gomma al mercato”.
L’autrice diventa cronista del presente, come sulla scia dello spirito di Rino Gaetano: lo fotografa con le parole per testimoniare il momento attuale, che va assaporato come le fragole ingrandite e modificato per tendere ad un futuro, che sia diverso.
Nel delirio post-industriale delle solitudini, ognuno cerca di risparmiare e salvarsi da solo, seguendo le istruzioni più assurde propinate dal potere legislativo e mediatico. Una vite “arrugginita” può diventare l’additivo per un succo di mela chiodata, un distillato di veleno autosomministrato e alimentato dalle ipocondrie, che porta a seguire tutte le proposte di cura che vanno di moda. Oggi, pur di non morire, si partecipa alla costruzione di qualsiasi contraddizione e si è disposti ad avvelenarsi di continuo.
Per Pasolini “l’uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, colonialista, schiavista e qualunquista”.
Un buon modo per sopravvivere ai mali della nostra società è dato dal ricavare qualcosa di buono dagli oggetti o dalle situazioni non favorevoli, dallo scovare le problematiche nascoste dietro le apparenze, i messaggi e le incoerenze eco-socio-politiche della nostra attualità. La poesia di Diāvoli sovverte e rivoluziona con le parole
“Io dico manifestare
protestare
lottare
criticare:
verbi diversi per controffensive
e diverbi in versi”
usandole come fulcro, per una sperata DISOBBEDIENZA CIVILE, di cui ci dà la ricetta:
“La ricetta prosegue con qualche chilo
di atteggiamento libertario
e nel diario della nonna ho trovato
di aggiungere il presente”.
…
“Testimoniare è solo l’inizio.
Il salto è cambiare
difendere il dissenso
riattaccare i fiori ai gambi
per ciò che è non-violento”.
“Voglio correggere la ricetta;
voglio allenarmi a percepire
quel che è male per l’esistenza;
voglio impegnarmi alla non-viltà;
voglio non accettare mai
quello che non va.
Abbiam bisogno di parole lette,
di cooperazione da proteggere,
di fatti personali necessari alla protesta,
non di anime mancanti,
di gambe senza testa.
…
Facciamo contro-demagogia,
un malocchio vero
alla maleducazione politica;
scriviamo poesia”
L’espressione artistica è un rimedio alla desolazione, alla miseria e alla solitudine. Questo testo riassume buona parte dell’idea dell’impegno sociale dell’autrice:
“Ogni minuto
oltre i vetri a serratura
vedo una battaglia di qualcosa,
ogni minuto
gli oggetti abbandonati
che commuovono tutto.
Intersociale e politica,
ogni minuto è una scelta
per me, in questa vita
che solitudine combacia con essere
e mi straccia e mi rincuora
cavalcare nel marino mio sentire
quanto è solo il mondo
a me, insieme[1]”.
La risposta risolutiva giace nella possibilità di amare, di vivere insieme, di modificare l’apertura creata dalle ferite in uno scambio con l’altro. La spaccatura diventa un luogo in cui ospitare, perché la fratellanza rimargina ogni sofferenza:
“Il mio amore di baobab,
così liscio di corteccia,
mezzo aperto lì nel centro
che ti prendo ad abitarci dentro[2]”.
Molti testi sono intrisi di partenze e ritorni, di stazioni e cimiteri e di evoluzioni. Sono un invito a riconciliarsi con la vita, conoscendo la morte, all’amicizia, alla leggerezza giocosa e operosa, all’anticonformismo e forse anche all’anarchismo.
È una poesia salvifica che acchiappa il sogno del cambiamento e preserva le relazioni, gli animi e la comunità.
Scrittura e musica sono utilizzati come strumenti terapeutici:
“Le piste sono piene di chi vorrebbe stare bene
e tu che metti i dischi sei il dottore,
hai in mano il megafono del senso
perché Dj è mestiere di cura
è corrodere i vissuti di chi entra
rimescolando l’interno di quei corpi
bruciati, rotti e torti
quando tutto fuori esplode
e non ti accorgi
che chi sceglie i pezzi
suona ancor più forte della musica che spinge
perché triggera il dolore
al di là delle pareti”
I versi di Diāvoli sono un manifesto poetico antifascista, che grida libertà:
“E la musica che mettono i Dj serve a questo
è un manifesto antifascista
per il giorno dopo la liberazione[3]”.
[1] Diāvoli, Agfa.
[2] Diāvoli, Baobab.
[3] Diāvoli, Radioatomica nucleare.
[1] Diāvoli, Fallisci et Impera.
[2] Diāvoli, introduzione a Polpette randage.
[3] Diāvoli, Potere contrattuale.