“E’ semplicistico, ma non errato, dire che la terapia intrapsichica si concentra nel
cambiare Alice.
Un terapista strutturale della famiglia si concentra nel cambiare Alice all’interno
della sua stanza”.
Ci è sembrato che questa frase rappresentasse in modo esauriente il lavoro del terapeuta
familiare. L’approccio che andiamo a esaminare non si limita a lavorare
esclusivamente sull’individuo, ma lo prende in considerazione insieme al sistema e al
sottosistema in cui è inserito. Partendo da questa premessa, Minuchin delinea un
approccio ancora più specifico, che è quello della terapia strutturale. Questa viene
definita dall’autore come l’insieme di teorie e tecniche rivolte a trattare l’individuo nel
suo contesto sociale che mira a cambiare l’organizzazione interna della famiglia.
Rispetto a questo, Minuchin sottolinea che il cambiamento può avvenire in maniera
unidirezionale dal contesto all’individuo e mai dall’unità più piccola a quella più
grande. Se teniamo però in considerazione l’ottica circolare attraverso la quale
cerchiamo di leggere le cose, ci chiediamo se sarebbe plausibile anche un’inversione
di rotta per provare a cambiare la società attraverso un cambiamento nella famiglia.
Questo, secondo Minuchin, si può realizzare solo attraverso una ristrutturazione, che
sfida il sistema nel mantenimento dei modelli transazionali disfunzionali. Tenendo
presente l’interdipendenza esistente tra sistema e individuo, non risulta difficile
comprendere la funzione del paziente designato, i cui sintomi mantengono il sistema e
ne sono mantenuti. Questo costituisce un cambiamento radicale di come viene vista la
patologia, insita nelle modalità con cui la famiglia risponde da una parte ai
cambiamenti imposti dalle istituzioni sociali, e dall’altra ai cambiamenti evolutivi dei
singoli membri; per questo, la funzione del terapeuta familiare diventa quella di
sollevare il paziente designato dall’essere l’unico a farsi carico di una disfunzionalità
che riguarda tutto il sistema. Con l’obiettivo di innescare un cambiamento delle
esperienze degli individui attraverso un cambiamento della struttura familiare, l’autore
ritiene che si debba procedere attraverso una serie di tecniche che consentono prima di
esplorare il funzionamento normale della famiglia (sottosistemi, ruoli, confini,
funzioni), e poi di ristrutturare, appunto, ciò che contribuisce alla disfunzionalità. Da
qui, il terapeuta definisce la diagnosi: un’ipotesi di lavoro dinamica, in continua
costruzione.
Il livello di cura con cui Minuchin approfondisce le tecniche, illustrandole anche
attraverso trascrizioni di sedute, ha attirato la nostra attenzione: ci siamo resi conto di
quanto questi strumenti siano funzionali, ma anche di quanta consapevolezza serva per
poter sfruttare al meglio le loro potenzialità. In un primo momento, abbiamo avuto la
sensazione di essere travolti dalla mole di informazioni e con essa il dubbio di riuscire
noi stessi a districarci in maniera flessibile tra i continui stimoli e la complessa rete di
relazioni emergenti in seduta; poi, invece, abbiamo abbracciato l’idea che, insieme alla
famiglia, anche il terapeuta stesso, di seduta in seduta, ascoltando e ascoltandosi,
costruisce i propri strumenti di lavoro, arrivando poi a padroneggiarli facendone
emergere la potenza. Cosa rende questi strumenti potenti? Il fatto che in quest’ottica il
cambiamento venga innescato e mantenuto dalle risorse della famiglia stessa; non a
caso, Minuchin parla di meccanismi di autoperpetuazione, secondo cui una volta che
si produce un cambiamento, la famiglia tenderà naturalmente a mantenerlo, attraverso
le risposte di reciproca convalida delle esperienze dei membri.
Ci sembra giusto concludere con le parole che l’autore utilizza per rievocare l’ unicità
di ogni sistema terapeutico: “la strada non è la strada. La strada è come la si percorre”.