“La poesia è l’insurrezione dell’essere
contro le mura in cui lo vogliono costretto,
la gobba del cammello che fa sopravvivere nel deserto,
la trasformazione del fisso e mutevole,
l’alchimia che riunisce questi due opposti”
(Antonio Bertoli)
Serena Rose Zerri è cresciuta in una famiglia nella quale non si pratica l’arte ma si dà molto valore allo sport e allo studio delle lingue straniere; possiamo dire che sono state le arti a trovare lei. A 18 anni, mentre studiava in Irlanda, ha cantato per caso in un teatro colmo di gente: è stata una specie di rivelazione, stare sul palco davanti al pubblico è stato per lei fin da subito naturale.
A Milano ha iniziato a studiare tecnica vocale e ad esibirsi. Insegna canto da vent’anni a professionisti e attori, ma anche a principianti incuriositi dall’elemento voce.
Nel 2015 ha iniziato ad appassionarsi alla fotografia, sempre per caso, durante un viaggio sulla Transiberiana. Ha realizzato due copertine di dischi, una pubblicazione su Jazz Italia, una su Vogue, quattro scatti battuti all’asta e un festival a New York.
La scrittura, invece, ha sempre fatto parte di lei: in forma di diario e di brevi racconti.
Serena Rose Zerri ha scoperto il Poetry slam durante il lockdown e ha iniziato a seguire serate e tornei come spettatrice e spesso come fotografa (ad esempio al campionato nazionale di Firenze 2022, ma anche Zelig e Santeria Toscana).
Sempre per caso, e forse per gioco, ha deciso di partecipare ad un Dead & Alive[1] ed è stato l’inizio di una nuova avventura, che l’ha portata sul palcoscenico con un ruolo di narratrice, ma soprattutto autrice.
Ha ultimato recentemente la scrittura dello spettacolo Vento di Grecale, nel quale unisce i suoi monologhi al canto. La prima è prevista per il prossimo 24 giugno a Milano e in scena con lei ci sarà il chitarrista Alberto N. A. Turra.
Marc Kelly Smith[2] afferma che: “la parola poesia ripugna le persone. Sapete perché? Per ciò che la scuola ha fatto alla poesia. Gli slam restituiscono la poesia alle persone… Abbiamo bisogno di parlarci poeticamente tra noi. È il modo che abbiamo per comunicare i nostri valori, i nostri cuori e tutte le cose che abbiamo imparato e che ci rendono quello che siamo”.
“Spero bene che l’aver vomitato in corridoio
in terapia intensiva e averti cantato “Crêuza de mä”,
di nascosto da tua madre sperando ti svegliassi,
possano bastare perché io non so in che altro modo dimostrartelo.
E sì, ti chiamo amico”
(Serena Rose Zerri, In sordina).
Serena Rose Zerri narra delle storie di vita, spaccati sulla condizione umana, segmenti della società. Integra la sua ispirazione poetica con un linguaggio forte, fluido e colloquiale, che libra sulle persone per farsi capire da tutti e scuoterci energicamente.
L’autrice coglie e mette la lente di ingrandimento su degli episodi che trattano di relazioni e ci fa entrare senza preamboli nella vita e nella morte.
ELLEBORO[3]
Che c’è?
Pensavi non sarei passata?
Hai ragione, l’ho pensato anch’io,
ma Annina mi ha fatto leggere un articolo
che mi ha letteralmente munto
le forze di dosso.
E allora sono qui.
Migliore amico
di mio amico carissimo.
“Carino” ho pensato, “simpatico”,
ma ci saremo parlati tre volte
in quindici anni.
E poi ci siamo ritrovati ad un matrimonio.
“Ué, ma che piacere, vieni,
ti presento la mia famiglia!”.
E mentre tua moglie
cercava di far mangiare una fetta di torta
a vostro figlio
tu hai pensato che fosse
cosa gradita
essere seguita in bagno.
Un giro di chiave,
i pantaloni slacciati e
il tuo stupido cazzo in mano.
E io?
Di pietra,
mentre ti avvicini
ripetendo il mio nome
“Daniiii, Dani…”.
E io?
Di pietra,
ma qualcuno
per fortuna bussa
e allora rinsavisci
e rimetti via il tuo stupido cazzo.
“Eh scusami, sai com’è,
ai matrimoni si beve un goccio di troppo, succede…”
Succede?
Il giornale diceva
tre costole rotte,
sangue,
buttata in un campo
ma sì è difesa, eh…
Sì, ma chissà com’era vestita…
Come? Com’era vestita?!
Ma del suo sangue sono sporche
le mie mani
perché io sono corsa a dimenticare
e ho lasciato che per tutti
rimanessi… un padre encomiabile.
Tu, invece, non ci hai pensato
due volte
a creparmi il cuore
a togliermi il sonno.
Ah, ma io ho avuto fortuna,
sono stata un antipasto interruptus,
ne hai mangiate di anime,
fino a lei.
Ah, cos’è questa?
Questa è una piantina
di Elleboro.
Sì, lo so, puzza orrendamente,
ma tanto non è per me.
È per te.
E infatti ora
la mettiamo qui,
sulla tua tomba.
Vigliacco,
ti sei fatto una collana
di lenzuola dopo
neanche due mesi di carcere.
Ti hanno trovato
che penzolavi
con la faccia blu.
Vigliacco,
anche nella morte vigliacco.
E allora io ogni settimana tornerò qui
a prendermi cura di questa piantina
nella speranza che
possa far tanfare perfino
il tuo ricordo.
Certa che non ci sia
un biblico Inferno
a occuparsi di te
e che tu sia proprio qui sotto.
A marcire.
Per superare dolori e rielaborare traumi e lutti è necessario attingere alle riserve della poesia, come “la gobba del cammello che fa sopravvivere nel deserto[1]”.
La poetessa presenta delle tematiche laceranti, che vengono accettate e contenute emotivamente tramite l’umorismo.
In terapia è importante usare l’umorismo perché “ci dà una possibilità di sfuggire a pensieri depressivi, anche se solo per un solo momento, e di pensare ai problemi da un altro punto di vista” (R. de Bernart, 2007). L’umorismo garantisce una “comunicazione metaforica più diretta” verso l’affettività, arginando le difese e portando con sé un divertimento rispettoso”…“corre veloce e lascia dietro di sé nuove spiegazioni transferali e controtransferali, è uno spirito libero, che rende disponibili pattern comportamentali, di quella comunicazione, unica, nel legame tra quel paziente e il suo analista” (R. de Bernart, D. Giommi, 2007).
Nella letteratura già Hesse aveva trovato la soluzione agli impulsi depressivi nella capacità di “imparare a ridere” (Hesse, 1946): grazie alla scoperta dell’umorismo “la storia del lupo della steppa rappresenta, sì, una malattia e una crisi, ma non verso la morte, non un tramonto, bensì il contrario: una guarigione” (Hesse, 1946). In terapia e in poesia “bisogna essere leggeri come un uccello e non come una piuma” (P. Valéry, in Calvino, 1985) per esprimere una leggerezza intesa non come inerzia o volubilità (la piuma in balìa del vento), ma come scelta consapevole (l’uccello che sfrutta a suo vantaggio le correnti d’aria e sceglie la direzione e la modalità di volo). Come terapeuti possiamo pensare che diventeremo “leggeri come un uccello, quindi con una direzione, un itinerario, un progetto” (L. Carrada, 2000). “Questi elementi
possono permetterci di alzarci in volo per vedere la foresta ma anche di posarsi su un ramo per vedere i colori, percepire le sfumature, sentire i profumi che emanano dalle varie foglie” (L. Gagnarli, in Andolfi, Saccu 1992).
L’origine segreta dell’umorismo, inoltre, non è la gioia ma la tristezza (R. de Bernart, D. Giommi, 2007): “melanconia e humour (sono) mescolati e inseparabili. Come la melanconia è la tristezza diventata leggera, così lo humour è il comico che ha perso la pesantezza corporea” (Calvino, 1985). Calvino ritiene che la letteratura abbia una funzione esistenziale, così come nelle stanze di terapia “la ricerca di conoscenza prende la forma di una ricerca di levità per affrontare insieme ai nostri pazienti il timore degli oscuri baratri” (L. Gagnarli, in Andolfi, Saccu 1992).
Fare ridere, dunque, diventa un mezzo per poter argomentare contenuti dolorosi e renderli come il vento, diffusi nella comunità, e insieme scoprire cosa ci porterà questo… Grecale.
GRECALE
Ennio.
Il mio Ennio.
Che per attirare la mia attenzione
hai finto un attacco di Tourettes
alla discussione della mia tesi.
E poi una mattina mi hai fatto trovare
le rotelline attaccate alla bici,
ma io avevo fretta, cretino, Ennio.
E al falò in spiaggia hai urlato
“senti amore, la nostra canzone”
e tutta la spiaggia con te
“l’occhio spento e il viso di cemento,
lei è il mio piccione io il suo monumentooo”…
che disagio quella volta, Ennio.
Però piangevo di risate
e hai baciato le mie lacrime
perché non cadessero più.
E ora ho due figli e una giara color testa di moro con su scritto “Ennio”.
Il notaio ha scandito chiaramente
“voglio essere disperso in acque serenissime”…
Sì, ho capito che volevamo tanto tornare a Venezia,
ma forse hai esagerato con l’entusiasmo, Ennio.
E quindi?
E quindi il treno, il biglietto. Ennio.
Carrozza 6, posto 1, 2, 3…
Ma ciao, 7B.
Con tutti questi capelli arruffoni, la barbetta sale e pepe…
7B, sono una donna solaaah,
necessito…
No, Ennio, tu non guardare.
7B, mi hanno detto che il bagno nella carrozza ristorante è tutto accessoriato.
Aspettami lì.
E quasi non ti par vero mentre mi precedi verso il peccato.
E finalmente ti sciacqui dal cazzo perché 7B è il posto che
ho comprato io per questo viaggio con bagaglio di singhiozzi e pena
in cui ponte
dopo calle
dopo sottoportego
sora rio terà,
sora sto vaporetto
che xé novembre,
e xé caìgo in laguna… Ennio!
Di nuovo Venezia, Ennio.
Io e te, Ennio.
E al Parco delle Rimembranze dove passano i traghetti che vanno a Corfù,
dove mi hai detto
“ti amo, rimbambita!”
Rimbambita sì,
perché sono maldestra,
cado, inciampo sempre,
anche da ferma.
E infatti cado,
mi sbuccio un ginocchio
e attorno sono solo cocci
e tra le foglie secche un mucchietto di quello che una volta eri tu, Ennio.
E l’oste del bacaro impietosito mi porge uno spazzolone e una paletta,
mentre il fato beffardo mi porge una intensa folata di Grecale
che da Nord-Est ti porta via da me
mentre cerco di…
scoparti per l’ultima volta, Ennio.
Lo so, lo so Ennio,
sono una rimbambita…
Scoparti per l’ultima volta, avrei tanto voluto
sapere che quella sarebbe stata l’ultima volta, Ennio.
E ora sono sola,
piango di risate,
e bevo le mie lacrime
perché non cadano più.
Con dei barlumi di umorismo, Serena Rose Zerri impasta nelle parole vita e morte, suggerendo di bersi le proprie lacrime “perché non cadano più”.Il binomio vita e morte si riferisce alla crescita, intesa come evoluzione e invecchiamento, che comporta il dimenticare e lo svanire. Perdere la memoria equivale
alla perdita della propria identità e del proprio ruolo sociale e familiare, perché annulla i confini intergenerazionali. Rimangono i ricordi della memoria a lungo termine, dai quali si stagliano 64 giorni, da tramandare.
64 GIORNI
È successo un giorno di maggio
di qualche anno fa.
Finalmente trovo le chiavi,
Chiudo casa e tu sei
seduto in giardino
Con un mazzo di fiori.
-Quel sorriso lì… – mi dici – quel sorriso non fa prigionieri. –
E mi fai cenno di sedermi accanto a te.
E quindi mi siedo.
-Ma ti ricordi? – mi dici – Mi ci sono voluti 64 giorni per trovare il coraggio di chiederti di uscire con me.
E no, in effetti non me lo ricordo.
E poi continui.
Mi hai portato in sartoria il tuo grembiule di fioraia strappato e fregandotene
altamente degli abiti da sera e della mia selezione di lino con gesto sbrigativo mi hai detto “sei tu il sarto? Cià, fa andàa i man, mettimi due punti che devo tornare in negozio”.
-Innamorato, all’istante. Brusca, selvatica, fianchi larghi. Ho pensato “ma quanti bambini ci facciamo con quei tuoi fianchi lì… Che fai? Arrossisci? Amore mio, è un po’ tardi per arrossire…” È che a me il pensiero che qualcuno mi abitasse il cuore non mi aveva mai sfiorato. Io cresciuto senza papà, senza mamma, io che i miei nonni erano poveri e nell’aceto dell’insalata c’erano dei piccoli occhietti di olio, ché l’olio è roba da re mentre noi dormivamo sotto un cielo di stelle. Che qualcuno mi abitasse il cuore, dicevo, io pensavo di non meritarlo. Solo che poi sei arrivata tu.
Tu che mi facevi “ciao” quando passavi per andare a prendere il caffè e mai una volta tu mi abbia detto “cià nani, vieni anche tu al bar”.
Tu che mi hai commosso quando ho scoperto che i fiori che carichi sulla bici il sabato mattina sono per i bimbi di via Venezian.
Tu che mi hai rapito il respiro.
E per ogni giorno senza te ho cucito un fiore dagli scampoli di velluto e damasco blu.
Ora, io sarei anche un tipo all’antica e mi metterei in ginocchio, ma ultimamente le gambe mi tradiscono un po’ il passo…”
Ed è così che allora senza inginocchiarti,
mi prendi la mano.
E il tuo viso si rabbuia.
Perché porti una fede al dito? Di chi è questo anello? Chi te lo ha dato?
Papà… Papà sono io.
Il tuo sguardo è ora disorientato, spaventato.
Oggi è l’anniversario di mamma e questi sono i fiori che hai cresciuto come ti ha insegnato lei. 64, come quelli di stoffa.
Quella è stata la prima volta che hai “confuso il tempo”, come dici tu,
che hai cominciato a svanire.
Io ho cominciato a svanire.
Ma chiuso nella tua mente,
mi consola saperti con lei,
lei che vive nei miei occhi.
Sei tornato giovane
per sempre innamorato,
Per sempre pronto
a vivere la storia
di quel sorriso
che prigionieri non ne fa.
“L’ Alzheimer è anche chiamata malattia del lungo addio, un’espressione che genera profonda malinconia e un senso di impotenza. È una malattia che sfida il vuoto e la morte”. Hai cominciato a svanire. Io ho cominciato a svanire: “mentre il soggetto affetto dal morbo di Alzheimer, durante lo stadio iniziale, prova generalmente frustrazione, rabbia e tristezza dovute sia all’incapacità di ricordare parole, sia alla consapevolezza del proprio deterioramento, la famiglia assiste, invece, a un processo di decomposizione (Franzin/Grisoni, 2017) che culmina nel ritrovarsi a dover accettare di non essere mai esistiti per la persona amata e a fare i conti con la cenere, con i campi bruciati dal fuoco dell’oblio” (D. Bulfaro, L. Palumbo[1]).
Gli interventi di poesia sono utilizzati con persone affette da Alzheimer e rappresentano “una modalità di collaborazione e di gioco” (Selberg, 2015).
“Numerose ricerche scientifiche evidenziano che, nonostante negli anziani con demenza vi sia un progressivo deterioramento delle facoltà cognitive, le aree cerebrali associate alla memoria musicale vengono preservate e restano intatte alcune abilità e competenze musicali fondamentali, come l’intonazione, la tonalità e il ritmo. La poesia, in quanto musica verbale possiede effetti terapeutici e permette di migliorare la qualità della vita delle persone con malattia di Alzheimer e delle loro famiglie” (D. Bulfaro, L. Palumbo).
Serena Rose Zerri sviluppa le tematiche della senilità ma anche quelle dell’infanzia, “l’alchimia che riunisce questi due opposti[2]” e il cerchio della vita come continua “trasformazione del fisso e mutevole”.
L’autrice rappresenta le tappe del ciclo di vita della famiglia, fondamentali per gli psicoterapeuti sistemici relazionali e “naufragar m’è dolce” in questo… Oceano.
OCEANO
Minha criança,
bimba mia,
lascia che ti racconti
di una me lontana.
La mia mamma dipingeva solo quadri blu.
“È l’Oceano, Ragnetto”, mi diceva,
e intanto camminava
fumando tra il cavalletto
e la moka del caffè.
Poi nell’agosto
dei miei cinque anni,
preparando le valigie
mi venne a svegliare dicendo
“Ragnetto, ti porto a conoscere l’Oceano”.
Ricordo ancora il mio zainetto verde,
i succhi di frutta,
il naso incollato al finestrino,
i campi di lavanda
il profumo della cannella
e i miei peluche
sul sedile posteriore
a dormire con me.
Poi aprivo un occhio
ed eccola lì alla guida.
Tre giorni tre ci abbiamo messo,
e poi i miei nonni sulla porta di casa,
le mie valigine gialle
che scendono dalla macchina,
una cameretta tutta per me
e spalancata una finestra
sull’Oceano.
Ah, quel blu!
E il rumore…
La mia mamma non l’aveva
mai dipinto quel rumore.
Ecco, io ho fiaccato
tutti i miei sensi quel giorno
Per poi crollare a letto
la più felice di tutte le bambine.
La mattina dopo lei non c’era più.
21 anni,
una mamma bambina.
Troppo fardello
dover spiegare il bene
e il male ad una creatura…
Troppe vite ancora da vivere.
Mi ha lasciato le sue stesse lentiggini,
una ridicola miopia
e le notti insonni.
Non l’ho più incontrata,
neppure nei miei incubi
di quando chiamavo
mamma mia nonna
e mia nonna mi chiamava
estrela da manha,
stella del mattino,
perché mi svegliavo urlando
puntualmente ogni alba.
Allora lei faceva di me
un arrostino di coperte
e con un filo di voce
per calmarmi
cantava
“Perde a estrela D’alva pequenina
Se outra não vier para a render
Dorme qu’inda a noite é uma menina
Deixa-a vir também adormecer
Deixa-a vir também adormecer”
che è come ti addormento io,
che un ventre più solido
ti ho dato per casa,
che mano più ferma sempre
ti stringerà anche quando
saranno solo errori.
E te lo dico già,
ti piacerà da pazzi sbagliare.
Minha criança,
bimba mia,
ti culli senza tema la notte,
che all’aprire degli occhi
la tua mamma è sempre qua.
Nella poesia di Serena Rose Zerri si può naufragare, abbandonarsi alle emozioni forti senza avere paura e scoprire, oltre alle sfumature dei colori, anche i suoni: il ritmo vigoroso dell’esistenza. Morte e vita scorrono in questi testi, in fermento, che spaccano gli argini e sfociano… nell’Oceano della poesia.
[1] Bulfaro D, Palumbo L. La poesia che combatte il lungo addio. Parole per curare l’Alzheimer, rivista Poetry Therapy Numero 007 Novembre 2022.
[2] A. Bertoli, 2010.
[1] A. Bertoli, 2010.
[1] Si definisce D&A un Poetry slam nel quale i poeti si esibiscono in una manche con un brano proprio e nell’altra con quello di un poeta estinto a loro scelta.
[2] È stato il creatore, negli anni ’80, del Poetry slam.
[3] Il fiore dell’Elleboro è uno dei pochi a sbocciare durante l’inverno, quando il pallido sole scalda timidamente la terra nelle giornate più serene.