LA CADENZA DELLA POESIA
“Io non voglio far festa,
voglio fare tempesta,
aggredire ogni singolo istante
rende la vita veramente
interessante”
(Tommaso Virga, Intrafesta).
Tommaso Virga nasce nel 1996 e scopre presto che ha qualcosa da dire, ma non riesce a dirlo come vorrebbe. Prova con il teatro, si diploma all’Accademia teatrale di Firenze (2015) e collabora con varie compagnie locali, ma ancora non è soddisfatto della sua ricerca. Scopre per caso il Poetry slamed è un fulmine a ciel sereno.
Comincia a viaggiare in tutta Italia, scrivendo e raccontando poesie a più persone possibili, finché fonda il Collettivo Ossi Di Nutria, con Danna e Gabriel Mastrandrea.
Il nome Ossi Di Nutria è nato una sera, mentre passeggiavano sulle rive dell’Arno e scherzavano sul fatto che Montale si sarebbe rivoltato nella tomba a sentire le loro parole: “altro che Ossi Di Seppia, noi siamo Ossi Di Nutria”.
Ossi di Nutria vuole indicare un sentimento di indagine e osservazione del mondo inteso come luogo caotico, da scuotere e sovvertire tramite la poesia: “un gran casino, che continuiamo ad amare nonostante ci abbia traumatizzato appena ci abbiamo messo piede. Ed è questo caos interiore il nostro motore”.
I riferimenti teorici sono molti, Tommaso Virga prende ispirazione da Dino Campana, per la capacità di trasformare ricordi in flussi poetici, e da Jacques Prevert, per l’abilità nella ripetizione come musicalità.
I testi sono pensati per essere interpretati sul palco, come da tradizione slam, e risentono della vicinanza a Gabriele Bonafoni per la costruzione del testo, a Gnigne per la naturalezza nel comunicare significati consistenti e a Francesca Pase per l’utilizzo di immagini nei componimenti.
L’autore raffigura un percorso di ricerca dell’identità, per affrontare crisi esistenziali e solitudini interiori e creare un nuovo ritmo tra velocità e lentezza.
Indaga le attuali difficoltà dell’appartenenza ad un gruppo e cosa significa far festa:
“Voglio far festa solo quando davvero faccio festa, la mia bara rosa shocking voglio che sia molesta. La marcia funebre una fortissima danza kuduro, adatta per il mio finale, perfetto chiaroscuro”.
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“Ma poi capisco.
… Desidero conformarmi alla massa, a questo vapore rumoroso che entra nel cervello, per smettere finalmente di sentirmi inadeguato.
Le mani sudano, gli occhi cominciano a lacrimare, scappo nel bagno del locale. Guardandomi allo specchio, vedo solo il riflesso di una maschera che porto avanti da una vita…
Non respiro, voglio uscire da questa stanza, fingere per tre ore e mezza mi strazia.E tutti ballano in questo ritmo che esprimo, in questa poesia che scrivo, ma questo sono io veramente, e parlo più lentamente.
Non lasciatemi solo”.
Nei suoi testi vengono descritte le fragilità umane e lo spaesamento della generazione giovanile della nostra società. Nel film Zelig, Woody Allen affronta la tematica di voler essere come gli altri per non sentirsi inadeguati, al punto tale che il protagonista assume i connotati fisici della persona che gli sta accanto: diventa momentaneamente come l’altro (ad esempio anche asiatico o sovrappeso). Possiamo domandarci come superare il senso di incapacità, in un mondo che muta rapidamente, senza uniformarsi alla massa? Come esprimere la propria voce? Come cogliere il senso delle frasi, che svaniscono in una valanga di lettere?
“Ti voglio ricordare come l’ultimo trancio di pizza, abbandonato sulla scatola di cartone… Il giorno dopo, però, a colazione, eccola lì. Splendente, bellissima, succulenta. L’ultima fetta. L’ultimo trancio. L’ultima speranza.
E hai sempre saputo che non ho mai ascoltato un tuo discorso, non perché sia noioso. Ma le parole sono così tante che scivolano via dalla tua bocca, che mastica ogni volta complesse formule e teoremi che non riesco a capire, ma figurati è un problema mio, a matematica ho sempre preso 4.
Sono i particolari che mi salvano. Perché compaiono all’improvviso, come il flash non disattivato di una fotocamera costruita per scattare frame dopo frame la mia vita. E allora afferri disperatamente quelle foto casuali, perché non si perdano in quel complesso mare di parole, che prende il nome di conversazione, mi ci aggrappo alle cose che sono rimaste, come le vene delle tue mani che sussultano alle mie carezze, autostrade trafficate di sentimenti, che bruciano a questo anormale sole di luglio.
Ho preso lezioni di giardinaggio per un giardino che prende nome di autosabotaggio, ci ho costruito un roseto scintillante, come quando entri da Kiko a provare qualche glimmer sfavillante.
E ora ho questa maglietta che si consuma nei miei palmi, mentre il tuo odore si trasforma in un racconto, in un amore non più corrisposto come in un qualsiasi stereotipo generazionale, una serenata stonata che stringo fortissimo. Perché è l’ultima cosa rimasta.
Come? Mi chiedi di cosa sai, precisamente?
È facile: sai di primo trancio di pizza che mangerò senza di te. Gusto margherita, questa volta. Ho sempre amato le cose semplici”.
L’autore approfondisce le problematiche relative all’essenza delle parole e delle relazioni, in una vita quotidiana che va così veloce da sfuggire e stordire la mente e il corpo. È fondamentale individuare ciò che è veramente necessario, le cose semplici, in questo mondo pieno di… STIMOLI
Tra qualche istante mi dimenticherò di voi.
Voglio dire, non vi conosco nemmeno,
la mia attenzione richiede più impegno.
Immaginate una grande cascata,
dove il flusso delle onde prende un’imprevista accelerata.
Così tanti stimoli,
così tanti gomitoli,
che sarebbe un peccato non provare tutti i pericoli.
Tutti insieme, in un solo momento.
Questa condizione la chiamano
disturbo dell’attenzione,
ma io preferisco chiamarlo sussurro.
Perché si insinua nella mente,
trasformando i tuoi pensieri persi a
diversi.
Se per gli altri il tempo è diviso in giorni,
il mio è diviso in eterni ritorni.
Darei il mio intero regno,
per avere più impegno.
Essere concentrato,
un atto adulterato.
Perché tradisco continuamente
la mia mente decadente.
Le forme dell’amore sono infinite, ma io non trovo la mia.
Vi giuro, dire un ti amo per me è un’agonia.
Ci vuole impegno nelle relazioni,
non è vero che mi rompi i coglioni,
è che mi stanco da morire nel cercare di
sopravvivere.
Ma quando te ne vai,
stringo forte quello che hai.
Perché se non ti vedo per una settimana,
la tua assenza diventa quotidiana.
Se decidi di non andartene, ti giuro
smetto di essere immaturo,
ma tu, fiore di campo,
accecami come un lampo,
resistiamo a questa piena,
che quasi son morto annegato.
Non preoccuparti, mi hanno ripescato. È come bere mille caffè in un unico bicchiere,
schizzato 24h24, scocco mille frecce come un arciere.
Quando mi chiedi
“A cosa pensi?”
Mi agito, pretendi troppo
come se dovessi bere un cattivo sciroppo.
Ma se vuoi sapere che rumore hanno questi pensieri,
tieniti forte!
Sono solo note storte:
Mi stanno tutti guardando
ma non so che ho fatto
devo dare loro qualcosa, ma non so cosa
prima devo guardare se ho controllato la posta
no nessuno mi scrive, nemmeno le bollette sanno che esisto
basta commiserarti, ho voglia di mangiare un panino ma mi scappa la pipì
ma prima mi metto a scrivere una poesia, adoro scrivere la mia vita
perché posso cambiarla a piacimento, non è questa la domanda che mi ha fatto, cosa stava dicendo non ricordo più, vorrei vederla nuda ma siamo già nudi, tu mi stringi nel tuo letto
al buio ed è tutto quello che conta
Ogni cosa è illuminata è il tuo libro preferito, me lo scorderò tra poco o forse rimarrà per sempre nel cervello, come un incantesimo, come una magia.
Le due parole fanno rima, ma tra poco mi ripeterò come prima, non smetto di pensare a questo vortice, non smetto di pensare a questi pensieri, non smetto di pensare, non smetto,
Faccio fatica a seguirmi, parlo troppo veloce,
rallentami, fammi digerire la mia voce.
E mi astraggo nei miei innumerevoli mondi,
profondi,
furibondi,
vagabondi,
moribondi,
rotondi,
tondi…
Scusate non trovo più la rima,
non ho più voglia di scriver come prima.
Sto scrivendo questa poesia contemporaneamente
alla visione di una serie scadente.
Ho perso interesse, no eccolo di nuovo.
Sarò sincero,
siete stancanti, non mi sento vero.
Fatemi divertire, e per favore vi scongiuro,
siate interessanti!
Perché la maggior parte della mia vita è solo questa:
non vivere un’esistenza di cartapesta.
Il disturbo dell’attenzione viene descritto in modo originale e suggestivo, immaginato come una grande cascata, dove il flusso delle onde prende un’imprevista accelerata, come un sussurroinsinuante che ostacola il pensare.
Adattarsi con flessibilità ad una realtà piena di Stimoli permette di fare una pausa, di stabilire un ascolto ed acquisire consapevolezza del proprio malessere e dei bisogni primari. Tommaso Virga evidenzia il sostegno dei legami: faccio fatica a seguirmi, parlo troppo veloce, rallentami, fammi digerire la mia voce e la necessità di scrivere e di rallentarsi, come mezzi terapeutici, per scoprire se stesso: tutti ballano in questo ritmo che esprimo, in questa poesia che scrivo, ma questo sono io veramente, e parlo più lentamente. La scrittura è uno strumento utile per sintonizzarsi e utilizzare l’immaginazione come una soluzione comune a tutti.
La poesia permette un respiro, una nuova ossigenazione: dà la giusta misura, una cadenza diversa, come si riscontra in alcuni versi di Giuseppe Ruggiero (2023):
“Non troppo vicini
né troppo distanti
Non troppo in fretta
né troppo lentamente
I verbi all’infinito”.
La velocità inganna le inquietudini, sfida la paura del cambiamento e della morte. Ma come scorre il tempo? “Mi fermo e non faccio nulla. Non succede nulla. Non penso nulla. Ascolto lo scorrere del tempo. Questo è il tempo. Familiare e intimo. La sua rapina ci porta. Il precipitare di secondi, ore, anni ci lancia verso la vita, poi ci trascina verso il niente… Lo abitiamo come i pesci l’acqua. Il nostro essere è essere nel tempo. La sua nenia ci nutre, ci apre il mondo, ci turba, ci spaventa, ci culla. L’universo dipana il suo divenire trascinato dal tempo, secondo l’ordine del tempo” (C. Rovelli).
Cosa succede se si va troppo svelti? Il testo Extrabeat è nato davvero come un’extrabeat, ovvero un pezzo recitato al doppio della velocità di lettura.
EXTRABEAT
Che rumore fa una ripetizione?
Forse è il suono di mille azioni che si comprimono in un file zip del computer, dati copiati nel mio cervello. Immutabili.
Non sono ancora pronto a cambiare, tutto incastrato alla perfezione, mi vesto mi lavo vado a lavoro coltivo le mie passioni mi lamento pranzo ceno e vado a letto, e il giorno dopo
Mi vesto mi lavo vado a lavoro coltivo le mie passioni mi lamento pranzo ceno e vado a letto.
Che rumore fa quando questa abitudine si rompe?
Crollano le certezze, quelle piccole accortezze
Che mi somministro per non affogare in un caos calmo.
Perché io non riesco a dare alla tua morte un senso, la fiamma della ragione non mi tiene più acceso.
Divento ba-ba-bastardo dentro, mentre ri-ri-ri-risplendo nell’ ignoranza della mia arroganza. Che non riesco a tenere traccia del tuo vinile assente, divento un disco ro-ro-ro-ro-rottamato
Sono un extrabeat che corre senza pensare alle conseguenze, raddoppio il tempo del mio pensiero, mentre compongo linee metafisiche per allontanarti.
Ma cosa cazzo pretendi, mi lasci solo qui con questa testa scheggiata, con i tendini tesi al nulla, con le mani che stringono i contorni della tua figura.
Sono un sasso gettato in acqua che sprofonda, sono una catarsi impazzita che non riesce a compiersi, sono una voce riversata in un calice di vino, che va di traverso mentre la assaggi.
Sono una castroneria vivente, una nutria che viaggia in mare aperto, uno splendente fendente dolcemente impertinente, che colpisce il tuo ricordo.
Dammi solo un minuto del tuo tempo troppo lento, dammi il consenso per non farti sparire in un lento, lasciami reprimere un pianto. Ti odio con tutto il cuore come la parola resilienza, io non resisto, io assisto il mio dolore.
Mi fermo in questo secondo cristallizzato, in questa pausa dimenticata, e lì ricostruisco il mio castello di carte truccate. È facile rompere una ripetizione mentre cerchiamo la perfezione, risparmiami la predica sull’accettazione e sul sorpasso, supero i limiti di questa metafora autostradale.
Tu stringimi forte, non lasciami correre per un momento e diventa la mia abitudine concreta.
Per poi domandarmi ancora una volta, che rumore fa una ripetizione?
Le abitudini servono come appigli nel caos dell’attualità, viviamo “nel tempo dei diritti e delle libertà rivendicate, dove ciascuno porta nelle nostre stanze di terapia il suo dolore come uno spasmo senza origine e direzione, come una malattia da curare, possibilmente in fretta e ad una condizione assoluta: non farmi cambiare” (G. Ruggiero, 2023). Come riuscire a modificare il copione?
Per interrompere l’autosabotaggio è necessario trasformare gli elementi distruttivi in costruttivi, sviluppando la capacità di amare se stessi: “è facile amare qualcun altro, ma amare ciò che sei, quella cosa che coincide con te, è esattamente come stringere a sé un ferro incandescente: ti brucia dentro, ed è un vero supplizio. Perciò amare in primo luogo qualcun altro è immancabilmente una fuga da tutti noi sperata, e goduta, quando ne siamo capaci. Ma alla fine i nodi verranno al pettine: non puoi fuggire da te stesso per sempre, devi fare ritorno, ripresentarti per quell’esperimento, sapere se sei realmente in grado d’amare. È questa la domanda – sei capace d’amare te stesso? – e sarà questa la prova” (C. G. Jung).
Per amare se stessi bisogna fare un passo indietro e ripartire dalle proprie origini:
ODIO FA RIMA CON PODIO
Scrivo
disteso sul divano
e quasi fosse un caso,
scopro improvvisamente
che odio
fa rima con podio.
Buffa rima,
trovata
mentre cercavo su internet il mio nome
Tommaso Virga,
ciò che prova a definirmi
a rendermi unico.
Ne ho trovati almeno cinque.
Di cui uno accusato di corruzione.
Io al massimo indagato
per non arrivare mai primo,
corruzione al contrario,
elimino la concorrenza
partendo da me.
Vi confesso, faccio finta
di avere grinta.
Nella mia testa ho capolavori
che si rivelano grandi dolori.
Dolori per gli altri, ovviamente.
Per me son tutti capolavori.
…
Ti odio perché sono banale e antipatico,
seguo la strada di un melodrammatico.
Perché mi manca la tua ispirazione,
la tua costruzione,
la sicurezza,
la durezza
di una mente attenta.
Ti odio perché sei tutto quello che non sono,
e vorrei tanto essere al tuo posto.
…
Perché pensare di non essere abbastanza
fa male da morire, una malaugurata istanza
sapere di non essere il migliore
è solo inutile dolore
che mi soffoca la gola.
E ripenso alle tue parole, in quel caffè
dove mi dai dell’egocentrico
che pensa solo al suo centro.
La mia giustificazione
non ha spiegazione,
è il pensiero di un perdente
che si autocommisera infinitamente.
Io
sono un ascesso metempsicotico
Destinato a ripetere lo stesso tormento,
a recitare lo stesso copione,
mentre galleggio in questo ballo cruento,
dove cammino insieme agli altri,
ma a passo lento.
In un mondo così veloce,
rimango senza voce,
la salvezza
non è lentezza,
ma solo la ricerca
di una contrazione perpetua.
… il tempo è dilatato,
il cervello è più leggero,
il cuore più vero,
più salato.
E’ l’innocenza di un bambino
che abbraccia la marea,
con il coraggio di piangere
quando si fa male,
mentre calpesta un riccio di mare.
E scopro allora,
improvvisamente,
quasi per caso,
come fosse un gioco,
che odio
fa rima con iodio.
Molte sono le aspettative richieste da una società in continuo mutamento, dove spesso l’apparenza e l’immagine prendono il posto della sostanza e della continuità dei legami, che divengono intermittenti. Abbandonare il confronto con gli altri in termini di prestazione, tipico della nostra modernità, permette di ritrovare l’umorismo, di lasciare andare le critiche morali, di riscoprire le rime: trasformare le angosce in poesia.
Concludo con le parole di Ruggiero (2023) per favorire una riflessione sulle problematiche della nostra “epoca della stanchezza, dell’apparenza, dell’auto affermazione e del distanziamento, dove nessuno ha più voglia di coltivare il fiore dell’appartenenza, dove si guardano le cose del mondo separate dal mondo e si fa fatica a cercare le congiunzioni, gli avverbi, i verbi all’infinito del discorso amoroso, la bellezza contenuta nelle relazioni”… “Nel tempo della sovranità della tecnica come forma esclusiva di cura, dei protocolli rapidi efficaci, delle vie semplici di addestramento mentale, la mia idea è che la terapia familiare rappresenti la vera rivoluzione nel campo delle scienze relazionali”.
Dare valore ai legami e prendersene cura è una necessità che riguarda non solo il terapeuta ma tutta la comunità, ed avviene ritrovando la bellezza della dimensione relazionale, nelle sue varie forme, come la condivisione.
Anche la poesia ha una natura relazionale: implica un destinatario (anche se stesso), un intento comunicativo ed espressivo, che crea delle nuove connessioni.
La cura delle relazioni, familiari e sociali, permette di trovare la stabilità, attraversando ciò che già Antonio Bertoli definiva il territorio del cuore (A. Bertoli, 2007). Bertoli (2016) affermava che “la miglior poesia è la vita”: ma come fare per contattare la poesia e la bellezza? “Quale è lo scopo, la spinta che ci porta avanti nonostante tutte queste morti quotidiane, quale è il senso che ci abita e non conosciamo, che ci distingue e ci unisce alla pietra che permane, al vento che passa; quale dio sconosciuto e beffardo si cela nel nostro affollato inconscio, ci vuole e non ci vuole al contempo? (Bertoli, 2007, Incipit). E ancora possiamo domandarci: “dov’è la rosa rampicante della croce, dove la spina che arde nel rosso vivo della fronte, quando la nube squarcerà la mente che ragiona, colmando di sangue la coppa del cuore?” (Bertoli, 2007, Sutra).
Nei periodi di crisi esistenziali e sociali, l’essere umano si trova di fronte alla propria fragilità, a una sorte ingannevole, e l’elemento centrale non è offerto dall’intelletto, risiede nei legami affettivi. È possibile bilanciare una misura diversa tra mente e cuore, tra velocità e lentezza, se ascoltiamo il messaggio e la cadenza che ci giungono in dono dalla poesia.