“Una lettera al minuto,
scrivere il diario mentre si fa di tutto,
un distratto centellinato comporre”
(F. Balestra)
Il Diario involontario di Filippo Balestra[1], come le precedenti opere dell’autore, destruttura il pensiero classico: rompe gli schemi, apre la mente e innova il linguaggio.
Balestra conduce il lettore in un percorso “sospeso” in cui può giocare, smarrirsi e ritrovarsi: suggerisce ma non definisce, ci spinge ad andare oltre ma non ci dice dove, ci propone una cosa ma anche il suo opposto.
Ci mostra prospettive diverse della realtà: la visuale dall’alto di una mongolfiera o dal basso del pavimento (“sottovalutato per forza, sta sotto”…“però è lui che ci fa andare avanti da una parte all’altra della casa”).
Tra le pagine del diario, una sorta di stream of consciousness, seguiamo un filo che attraversa le “albe con i tramonti che saltano fuori dagli orizzonti” e procede verso un legame con le parole, con gli oggetti, con se stessi e con gli altri.
Un filo che si dipana all’interno di una cornice vasta, composta da riflessioni sul linguaggio, sulla conoscenza, sull’arte, sul concetto di spazio e tempo, sulla condizione dell’umanità, alla ricerca di una stabilità “come il famoso equilibrista funambolo paracadutista quando se ne stava lungo sdraiato sul divano in pigiama, che infatti sembrava soltanto una persona”.
“Secondo Mazza (2003, in L. Buonaguidi[2], 2023) scrivere un diario è uno dei tanti strumenti adottati dalla Poetry therapy, nel senso che aiuta a fornire alle persone un veicolo per esprimere pensieri e sentimenti in modo personale e significativo, facendo il controllo attraverso la rilevazione di esperienze di vita difficili, in una modalità confidenziale di espressione” (L. Buonaguidi, 2023).
La scrittura di diari può essere consigliata per individuare degli stati emotivi e prenderne consapevolezza o per monitorare i mutamenti del tono dell’umore, all’interno di un certo periodo di tempo.
Balestra ci propone un diario involontario, che implica “scrivere per vedere cosa si scriverebbe, studiare senza accorgersi che si sta studiando”, “leggere per ascoltare quello che si pensa mentre si legge”. Un diario che sembra animato, con un’anima propria connessa allo scrittore, che emerge un po’ prima, un po’ dopo, “un po’ come in differita sulla propria vita”.
Il testo è scritto per un lettore con il “gusto per il paradosso e la sovversione del senso[3]”:
“preservare l’involontarietà, era il principio base fin dall’inizio, tutto basato sull’imprevisto, sull’effetto del suono, sulla parola, sull’effetto della parola sul suono, la differenza fra “sono” e “suono”, anche, dovevamo indagare, dovevamo indagare il dove andremo a finire se iniziamo, dove andremo a iniziare se finiamo”.
Per l’autore la “parola” muove le sue ricerche insieme al “suono”: viene accostata ad un’altra per sentire l’effetto che fa, al di là del significato, e per vedere dove ci porta, dove andremo a finire e da dove iniziare.
Questo avviene perché “dietro c’è una fiducia nella pura potenzialità del linguaggio, che anche quando non racconta nulla, va, inventa e scopre[4]”.
Balestra, a proposito del valore della poesia, afferma: “mi piace far risaltare una sovversione che ha a che fare con i meccanismi del linguaggio che a quanto pare, poi, il linguaggio, è quella cosa che ci riporta una rappresentazione del mondo[5]”.
E ognuno può usare i vocaboli come vuole, in modi impensabili:
“Un trasloco di parole, da un posto segreto a un altro posto segreto, se ne perdono alcune nello spostamento, succede sempre, le parole perdute verranno poi forse ritrovate, raccolte da qualcun altro che però le userà in modi impensabili”.
Tramite la scrittura si traslocano dei significati, si tramandano dei concetti, si rappresenta il proprio mondo: chiunque può utilizzarle, giocarci, regalarle all’altro. La parola è l’elemento essenziale da cui si sviluppano le relazioni tra le persone.
Ma come si scrive un diario?
“Tutto il giorno girare attorno alla parola base dalla quale cominciare, poi trovarla, metterla bene per iscritto, ecco come si fa il diario”.
Il punto di partenza è uno studio sul linguaggio, che rivoluziona il pensiero e “quello di cui non mi ero reso conto, quando l’ho letto la prima volta, è che si tratta anche di un libro dove dentro, dopo tanto cercare nella prosa, nei romanzi, si può trovare, dissolta nella poesia, ma assolutamente percepibile, il concetto della relatività dello spazio e del tempo, l’idea che esistano infiniti universi”[6].
Il poeta ci offre una nuova mappatura linguistica e il testo diventa un paesaggio:
“Il pensiero lineare è meglio tenerselo aggrovigliato in tasca, pensavo l’altro giorno a una mongolfiera, a ballare la macarena su una mongolfiera, in questo senso aggrovigliarsi le braccia le gambe le mani ballando la macarena dall’alto del punto di vista di questa mongolfiera, guardare dall’alto, guardare il testo come fosse un paesaggio, mischiare le cose, mischiare soprattutto il giusto con il non giusto mentre con lo sbagliato poi chissà cosa ci facciamo”.
Balestra ci dà parole e immagini e fa riflettere sui valori della vita a partire da piccole cose, che il lettore visualizza in maniera inaspettata, come i lacci delle scarpe:
“Mi piaceva anche l’idea di immaginare un’altalena che oscilla tra la tristezza e la ristrettezza, oltre all’altalena che oscilla tra la luna e il nulla. Eppure c’è un’euforia minima, che salva tutto, un’euforia da passeggiata, basterà poco, allacciarsi le scarpe, cose di questo tipo”.
Lo scrittore afferma “mi piace concentrami su piccoli dettagli che svelino l’assurdo di cui siamo circondati” e ci riporta inevitabilmente a Beckett[7], all’attesa di qualcosa che non arriverà mai, ma con Balestra ci ritroviamo da un’altra parte perché “il diario porta dove non c’è motivo di andare”.
Il lettore sperimenta l’imprevisto e alcuni oggetti appaiono in una dimensione animata e suggestiva:
“bisogna convincere il tavolo a rimanere. Invece lo vedo che si sposta pian piano, procede in avanti chissà verso dove. Ci sarebbe da fare una conversazione, con questo tavolo che se ne va, per esempio mi veniva in mente di appoggiarci sopra qualcosa, forse un quaderno con la penna, più insisti, più porti avanti il compito del diario del giorno, più il tavolo si sposta, se ne va. Empatia, ci vorrebbe, creare forse proprio con la penna un guizzo emotivo, anche un sussulto di cuore andrebbe bene, l’idea da ribadire forte che qualcuno in questo momento sta soffrendo molto, tavolo, te ne rendi conto?”.
L’autore indaga il rapporto con gli oggetti, in una versione antropomorfa, quasi come fossero persone umoristicamente rimaste intrappolate dentro i mobili, in ruoli rigidi, da sensibilizzare. Balestra sviluppa anche la relazione con se stesso, confrontandosi con pezzi del proprio corpo:
“Questo dito a me attaccato di mano mia, mi son detto, di chi è, sembra un dito, è un mignolo, è un mignolo solo in apparenza, a chi fa capo, questo mignolo. Ero così tanto spensierato che ho dovuto recuperarmi, scontrarmi con il mio dito per capire che c’ero, che fino a quel momento c’ero stato”.
Il testo evoca alla memoria il racconto di Rodari[1] la passeggiata di un distratto, nel quale il desiderio di conoscenza è mosso dalla curiosità e dagli stimoli che si trovano lungo un percorso, tutti i giorni, e che ci distraggono al punto di perdere parti di sé.
Balestra descrive la dicotomia del concentrarsi/distrarsi: “uno dei problemi della vita è che il mondo è interessante, per questo ci distrae dalle cose da fare nella vita per il mondo”. “Mi era già chiaro che dietro la forma del diario ci fosse un libro di poesia in realtà estremamente denso e pesante, involontario, certo, ma proprio per questa sua precisa involontarietà, molto faticoso, non da leggere, forse neppure da scrivere, non sempre almeno, ma da esistere. Con parole che non saprei ripetere, Pippo lo dice: esistere così è un esercizio di volontà continuo, perenne, che richiede grande concentrazione nella distrazione[2]”.
Lo scrittore, inoltre, affronta, con autoironia e umorismo, la propria immagine del passato, che è stata superata:
“sto superando me stesso, anche adesso sto superando me stesso, è da quando sono nato che supero me stesso”
e sviluppa la difficoltà a svincolarsi dalle definizioni e a trasformare l’Io:
“sul diario ho preso appunti tutti attorno all’idea dell’abbandono dell’io, facendo attenzione che le cose che scrivevo non avessero niente a che fare con me, appunti sul mondo, appunti su tutto, in effetti c’era sempre qualcosa, nel mondo, nel tutto, c’era sempre un dettaglio di qualcosa che poteva essere ricondotto a me”…“Però rimane quel dettaglio, in forma sempre più microscopica, microcosmica, dettaglio di un dettaglio, quasi molecolare, atomico, nel senso di molto piccolo, ormai appiccicato addosso, fatto di parole, quell’insopportabile dettaglio scritto nel diario, quella parola che mi rappresenta anche se ormai è da anni che cerco di non assomigliarmi”.
Il Diario involontario è come “un’autobiografia senza fatti”[3]:
“basta poco, venirsi incontro, per esempio, mettendosi nei panni, vestendo i vestiti di uno che vive nel tuo armadio, che gli scrivi la biografia. Una biografia al giorno, concentrarsi su questa nuova inaspettata biografia da dire, da fare fuoriuscire, di questo qui che vive nel tuo armadio, una biografia anche volendo declinata al futuro, una vita di quello che sarà la vita”.
L’autore esprime i temi dell’empatia, del mettersi nei panni dell’altro, anche se l’altro è un oggetto, anche se l’altro è se stesso. Si confronta con il suo doppio, con il tema del doppio inteso come dualismo all’interno di un elemento e dentro ognuno di noi.
Evidenzia le controparti della psiche e ci fa spostare su piani spaziali contrapposti, che non seguono un ordine cronologico ma invertono il senso del tempo, per cui si può scrivere una biografia sul futuro, su “quello che sarà la vita”, e non più sul passato.
L’ispirazione viene da eventi semplici, che accadono nel quotidiano, e tutto è un’occasione per scrivere:
“Sappiamo che arduo mestiere è riuscire a farsi ispirare da tutto, anche da quello che non è successo”.
È necessario, per tanto:
“scrivere il domani come se fosse nel diario, cercarlo: cercare il domani nel diario scrivendolo. Leggere tutto, non memorizzare niente, opporsi alla memorizzazione dei dati, prendere solo parti di senso sparpagliato da qualche parte, fare in modo che niente della giornata possa prendere la forma dell’abitudine, nemmeno il diario”.
Balestra mostra le contraddizioni della vita e la possibilità di rompere gli schemi, perché una cosa porta ad un’altra, diviene un’altra.
“La tecnica del Parlare d’altro. Parlare di una cosa parlando anche d’altro (da qui ho individuato tre gradazioni di “altro”, che si dividono in “altro”, “ben’altro” e “tutt’altro”), ecco, mi piace pensare che la grande letteratura e forse anche l’arte in generale, debba riuscire a parlare di una cosa, e di tante cose, parlando di tutt’altro[4]”.
In un mondo in divenire, la memoria è rappresentata come qualcosa da lasciare andare per scrivere “un diario al giorno, cominciare ogni giorno un diario nuovo, in modo da dimenticare anche quello che si scrive”.
Lo scrittore ci descrive un dettaglio, un momento, un evento e al tempo stesso l’intero processo di sviluppo del sentire sottostante: fa percepire al lettore delle esperienze bimodali, adesso rispetto ai poli essere/frantumarsi, sapere/dimenticare, cancellarsi/presentarsi, alla ricerca della propria identità, in mezzo agli altri, sul ciglio del passato e del futuro:
“vorrei frequentare solo gli sconosciuti, diventare quello che sarei, solo più liberamente. Non ho passati presenti futuri a cui pensare quando parlo con gli sconosciuti, mentre parlo mi cancello, mi presento, dico tutto quello che so di me anche eventualmente restando zitto”.
Per l’autore è fondamentale comunicare in silenzio e percepire i subbugli interni restando immobile:
“sono pronto a distrarmi creando un sistema astratto di ingranaggi, di sovrastrutture a rimbalzo, un sistema impalpabile di carrucole e perni e funi antigravitazionali. Ed ecco la mia testa comincia a girare da una parte, il mio sguardo gira verso la parte opposta a quella dove sta girando la testa, mi sento tutto internamente antitetico, in un attimo mi accorgo che ero focalizzato su qualcosa, fino a poco prima, però non so più cosa, adesso ancora di meno, giro la testa da una parte, lo sguardo va dall’altra, sono interiormente schizzato altrove, anche se adesso sono qui fermo”.
Una tematica centrale del Diario involontario è che:
“la cosa migliore sia scrivere le poesie dicendole, però stando zitti, mentre si lavano i piatti, mentre si guarda il pavimento, mentre senti da qualche parte un lamento che chissà da dove viene, qualcosa ti chiedi, qualcosa no. In particolare, in generale, l’idea di base attualmente è scrivere le poesie mentre si sta pensando ad altro, non ce ne si sta accorgendo”.Questo concetto di scrittura involontaria, cioè che accade in maniera autonoma, pensando ad altro, implica una sintonizzazione diretta con l’inconscio: un’espressione del sé più profondo connessa con la “mente del poeta”, una sorta di immaginario archetipo poetico.
Nella performance Esistere non basta Balestra mette in atto questi argomenti e così ci racconta: “sono davanti a un pubblico ma invece di parlare e dire cose, come succede di solito nei reading, me ne sto zitto e scrivo forsennatamente per ore mentre il pubblico vede proiettate le parole”.
L’autore comunica restando in silenzio, rappresenta un ossimoro, trasforma il testo in immagini e sbalordisce il lettore.
Balestra, inoltre, ci propone il tema del doppio anche in riferimento alla società.
Le ideologie civili e politiche traballano, perdono di significato e le aspettative vengono disconfermate:
“Con soltanto le parole, senza manco un argomento, dove mai potrà andare la riflessione, dove, non c’è nemmeno un indizio di base da cui cominciare, è una riflessione senza argomento, senza tema di riferimento, spoglia di tutto, è rimasta anche senza soggetto, nemmeno un io di partenza a dichiarare un minimo di dolore per qualcosa, no, nemmeno un minimo di struttura, la riflessione va da sola, fa a meno delle categorie di appartenenza, è una riflessione che non genera discorsi, nemmeno politica, sarà questa riflessione, nemmeno apolitica, astraendosi così tanto da non porsi nemmeno a metà tra i poli del duale”.
Nell’attualità non ci sono più argomenti né contenuti, come fare a capire metaforicamente se dormiamo o siamo svegli: è giorno o notte?
“Mollo tutto, vado via, si può fare ogni giorno, mollare tutto, disarcionarsi, svincolarsi, senza rimanere affezionati ai propri vincoli, ai propri vicoli. Augurare buonanotte al mondo, nonostante tutto il giorno davanti”.
Anche l’arte risente di questa crisi valoriale, che Balestra coglie con umorismo:
“Arte pervasiva, ecco cosa, un’arte enorme immensa che si fa con il movimento di un labbro, con il battere di un ciglio, quel momento in cui si muove la palpebra, l’occhio è quasi chiuso, ancora aperto, nessuno si accorge di nulla, eppure un’illuminazione c’è, qualcosa che rimane da qualche parte, per fortuna non serve a niente, non serve a niente, per fortuna è arte”.
Il vuoto circonda l’essere umano e, per sentirci vivi, a volte si ricerca anche il dolore:
“Oggi cercavo un dolore nuovo. Mi sono indagato il corpo sperando in qualche tendine o legamento, qualcosa su cui riflettere un minimo, invece niente”.
Per ricevere compagnia “il narratore senza nome sogna un cecchino da compagnia e un agente segretoche lo possano colpire per donargli un momento di identità oltre la lingua che lo muove[1]”.
La realtà muta velocemente, sembra in un modo e poi appare in un altro, giriamo l’angolo e tutto è diverso, a causa dell’inganno consueto[2].
Il lettore assaggia una nuova dimensione, che sembra cubista, grazie all’imprevisto che utilizza il poeta: l’inaspettato. E come l’io si può scomporre così anche gli oggetti, in un tempo in cui l’essere umano è circondato dal “nonnulla”:
“Mi sento uomo su isola deserta, con tutto il nonnulla lì disteso su un foglio ancora tutto da capire, il nonnulla, il nonnulla da approfondire ancora e ancora, non vedo l’ora di continuare a non capire”.
Per colmare il vuoto, Balestra propone una nuova concezione di spazio, una geometria del senso:
“Mi sta interessando la geometria del senso che però non so cosa sia, forse ha a che fare con un’idea di linee fatte di idee, con l’idea di uno spazio fatto di idee che ogni tanto si muovono, ogni tanto tangono, vengono giù, toccano qualcosa, qualcuno, poi se ne vanno. Forse anche le idee si possono vedere”.
Avvengono metamorfosi interne ed esterne, di sé e degli oggetti, tramite il processo della conoscenza, ma anch’essa si sfalda:
“la comprensione della cosa sorvolava la cosa allontanandosi da essa, rendendola piccola lontana minuscola, questa cosa enorme, complessa, che una volta capìta non è più la stessa, mi sta adesso in mano, si stringe in un pugno, è ridotta a polvere impalpabile di quello che è stata”.
Si riduce a un cumulo di polvere, allora conviene sapere o non sapere?
“Meno male che esista l’inesprimibile, l’inarrivabile, meno male che esiste quello che non si sa, ancora meglio, quello che non si saprà”.
È meglio dirsi la verità o dimenticare?
“Mi viene in mente sinceramente che la verità per essere onesti è meglio non dirla, soprattutto in un diario privatissimo in forma di quaderno che può leggere soltanto chi scrive”.
Diario involontario “è un libro che siccome si interroga su cose piccolissime, unghie, passeggiare, una sola parola alla volta, queste cose piccolissime le estende il più possibile, le trasforma, le ingrandisce o le miniaturizza e poi le trasforma ancora, le allontana dalla realtà, poi ce le riporta[3]”.
Attraverso questioni senza risposta (la soluzione si trova forse nella direzione opposta?) l’autore sviluppa il concetto di conoscenza e la difficoltà di un confronto con se stessi, dato che l’essere umano si ritrova a “vivere in una grande omissione”, “dentro un grande contrattempo” e “in un grande ciononostante”.
Balestra rappresenta la perdita dei valori della nostra epoca, “l’idea del diario era basata su una grande battaglia contro l’attualità”, nella quale:
“l’ideale è fare di tutto per non risultare professionali, ancora meglio, fare di tutto per non risultare”.
Possiamo domandarci come fare a recuperare le ideologie, l’arte, la conoscenza? La poesia può essere utile per seminare dei valori scomparsi?
Come risposta a queste domande e riflessioni involontarie, riporto una parte del manifesto di Balestra:
“il manifesto della contraddizione, per fortuna non l’ho scritto, era il manifesto della scrittura come scorribanda, della scrittura come valanga, della scrittura intercapedinale, interstiziale, della scrittura per farsi male, della scrittura scoscesa ininterrotta, della scrittura per non fare altro, della scrittura per fare tutto. Oggi quello che veramente ho pensato è che vado, vado spesso, volendo, però spesso resto”.
Lo scrittore indaga che cosa significa andare e restare, sviare e affrontare, conoscere e ignorare, dire la verità o omettere, cancellarsi e presentarsi:
“per fortuna questo esperimento è anche l’esperimento di una scrittura che non prevede né domande né risposte, ma solo elaborazione di dati, anche poi perseguire la tecnica dello scrivere per vedere cosa si scriverebbe, scrivere per leggere le conseguenze di quello che non si sapeva, di quello che non si sa, di quello che non si saprà”.
In modo umoristico, ma anche dolente, Balestra fa emergere dai testi una crisi individuale e collettiva: ognuno ha un cataclisma in tasca, si avverte la minaccia di una frantumazione emotiva, di una tragedia incombente e di un’estinzione di massa.
“M’era venuto in mente di scrivere un diario al contrario, a ritroso, scrivere un diario che inizia dalla fine, però ultimamente mi dispiace l’idea di morire, quindi per ora no, continuo con il mio diario”.
Continuare con il diario significa portare avanti la speranza, attraverso “un esercizio di esplorazione inconsueta dell’immaginazione[4]”, perché ciò che avviene in automatico (l’improvvisazione) è sempre frutto di una grande pratica (l’esecuzione).
Questo riguarda anche la terapia: per Ruggiero[5] (2023) la costruzione di un’alleanza terapeutica assomiglia alla dialettica tra esecuzione ed improvvisazione di un’opera musicale.
Balestra sceglie “la scrittura per non fare altro” e “per fare tutto”. Scrivere è uno strumento terapeutico, che rintraccia un rapporto tra conscio e inconscio e che può essere utilizzato per prendersi cura delle relazioni, all’interno della nostra epoca.
L’autore ci conduce lontano, ci fa spaziare tra le pagine come se fossimo in viaggio, perché ogni cosa è permeata di poesia “e questo è lo spazio-tempo, questa è la piega degli eventi, una tra le infinite, il rincorrersi delle pieghe, l’avvicinarsi e l’allontanarsi delle pieghe. E del resto, forse inconsciamente, ma non credo, Pippo parla anche di pieghe in un giorno di diario, che poi non è un giorno vero perché non ci sono le date, non è un diario vero. Eppure nomina quelle cose che tu ti chiedi come nominare; così, passando da una piega all’altra”[6]. Attraverso “la parola”, Balestra rappresenta l’invisibile, l’indivisibile, il nucleo dei legami e ciò che avviene mentre non ce ne accorgiamo, come le unghie che crescono, come il Diario involontario.
[1] Beretta A. Parlare per parlare, e vedere l’effetto che fa, Domenica del Corriere della sera, 22 dicembre 2022.
[2] Montale E., Ossi di seppia.
[3] Martello C. (2023) https://www.facebook.com/carlo.martello.7505?locale=it_IT.
[4] Beretta A. Parlare per parlare, e vedere l’effetto che fa, Domenica del Corriere della sera, 22 dicembre 2022.
[5] Ruggiero G. (2023) Prove d’orchestra, la natura musicale della psicoterapia, Alpes, Roma.
[6] Martello C. (2023) https://www.facebook.com/carlo.martello.7505?locale=it_IT.
[1] Rodari G. (1962) La passeggiata di un distratto, in Favole al telefono, Einaudi, Torino.
[2] Martello C. (2023) https://www.facebook.com/carlo.martello.7505?locale=it_IT.
[3] Schiavone M. (2023) Scrivere e leggere più che si può. Intervista a Filippo Balestra. https://www.satisfiction.eu/scrivere-e-leggere-piu-che-si-puo-intervista-a-filippo-balestra/
[4] Schiavone M. (2023) Scrivere e leggere più che si può. Intervista a Filippo Balestra. https://www.satisfiction.eu/scrivere-e-leggere-piu-che-si-puo-intervista-a-filippo-balestra/
[1] Filippo Balestra (Genova, 1982) è scrittore, poeta e performer. Fa parte del collettivo Genova Slam ed è coordinatore Liguria per la LIPS – Lega Italiana Poetry Slam. Ha pubblicato Poesie Normali (Miraggi, 2015), Guida indipendente alla città di Genova (Hoppípolla, 2018) e Diario Involontario (Tic edizioni 2022). Nel 2021 ha vinto il premio Franco Scataglini per la videopoesia Un adesso immenso. Suoi recenti esperimenti linguistico/letterari sono la Conferenza sulla conferenza e la live writing performance Esistere non basta.
[2] Buonaguidi L. (2023), Poesia e psiche. Dall’ispirazione poetica alla terapia della poesia, Ed. Mille Gru.
[3] Schiavone M. (2023) Scrivere e leggere più che si può. Intervista a Filippo Balestra. https://www.satisfiction.eu/scrivere-e-leggere-piu-che-si-puo-intervista-a-filippo-balestra/.
[4] Beretta A. Parlare per parlare, e vedere l’effetto che fa, La Lettura del Corriere della sera, 22 dicembre 2022.
[6] Martello C. (2023) https://www.facebook.com/carlo.martello.7505?locale=it_IT.
[7] Beckett S. (1997) Aspettando Godot, Einaudi, Torino.