“Ma lei era nata al termine di una tempesta
blu primaverile e lo conosceva bene
il soffio blu ghiaccio del vento”
(B. Achille, Premessa o sul rapimento di Europa)
Beatrice Achille è nata a Trieste (1996), dove ha scritto soprattutto per il teatro.
Ha studiato filosofia all’università Ca’ Foscari di Venezia.
È stata una delle fondatrici del collettivo poetico ZufZone e una dei curatori della collana di poesia I libretti verdi, presso la casa editrice Battello Stampatore.
Alcuni suoi contributi compaiono su riviste letterarie, mentre con l’installazione sonora Mnestica ha partecipato alle mostre Immaginare il Patriarcato (2019) e Wasted (2023).
Ha pubblicato Medeatiche (2022), con Vydia editore:
“nell’augurio non si ripercorra più
alcuna Medea”
(B. Achille, Medeatiche).
La storia di Medea appartiene alla tradizione dei miti greci, ha trovato la sua più nota incarnazione nella tragedia di Euripide, per poi incontrare altre riletture, tra le quali quella di Seneca, in epoca romana.
“Medeatiche, di Beatrice Achille, ripercorre il mito degli Argonauti, seguendo in parte le peripezie geografiche de Le Argonautiche di Apollonio Rodio, lì dove le vicissitudini di Medea s’incrociano con tutto il portato dell’omonima tragedia euripidea” (dall’introduzione di G. Scartaghiande).
Già dal Preludio dentro un gesto antico possiamo sviluppare delle riflessioni a proposito della formazione dell’identità:
“La materia si manifesta coagulata secondo ereditarietà
dalla vita – questo corpo, questo viso”.
[…]“Tutto per una voce.
Io è nella voce”.
La nostra individualità si compone da ciò che riceviamo in eredità, che va a costituire il corpo, i tratti del viso, e si esterna nella voce, timbro che sancisce l’unicità.
Oltre ai fattori ereditari, l’ambiente affettivo e i modelli relazionali sperimentati nello sviluppo condizionano i processi evolutivi.
“Alcune strade, però, si segnano da sé alla nascita, non vi si può interagire se non nelle proprie immagini mentali, nei sogni[1]” e Medea viene spesso rappresentata come una creatura del destino.
“La Medea dell’antichità che meglio conosciamo, quella di Euripide, ci offre la descrizione di un aspetto nuovo ed oscuro della donna. Si tratta, per certi aspetti, di un personaggio apparentemente diverso dai comuni mortali: è una maga capace, per i suoi poteri, d’agire diabolicamente da sola (senza l’aiuto di un uomo). Tuttavia, questa stessa persona manifesta l’ambivalenza ed i conflitti riconoscibili, in misura diversa in ciascun individuo, in tutti gli esseri umani. La presenza contemporanea di aspetti umani comuni e di altri più oscuri ed enigmatici costituisce il motivo principale del fascino di questo personaggio[2]” (S. Nanni, 2020).
Il personaggio di Medea di Beatrice Achille si staglia dal foglio, dal gelo, da una nebbia interiore che pervade la crescita e preannuncia un malessere esistenziale:
“Distrarsi nello spazio – nel gelo.
Un ecosistema antartico interno per tutta la giovinezza.
Così parlava la mia voce – attraverso l’abitudine al freddo
disimparandomi ai grandi eventi, tra scorciatoie,
una volontà recisa.
Nessun tempio oracolare, rosone, vetrata blu di Chartres.
Mi trasportava una nebbia veneziana,
non mi assumevo responsabile – proprio per non intendere di edificarmi
sacrale. Il mondo si nutriva di me, lasciandomi ipotermia, fino ad arrivare al punto in cui il proprio problema è esistere.
Esistevo ancora”.
Medea è “un vaso pieno di un sapere non mio”, cioè la depositaria di una conoscenza antica, costituita da rituali in contatto con la natura, e di un ruolo culturale e familiare che le è stato assegnato e che coincide con la sua identità.
Un ruolo assunto e non interiorizzato: come fare per trasformare la disperazione in speranza e dal gelo ritrovare se stessi? Come recuperare la fede, la voglia di vivere?
“Ma bisogna la fede.
O si resta a bramare sempre un riconoscimento:
ascoltatemi la voce e ditemi se non è Voce
questo io imperatrice, voi servitela.
Bisogna la fede senza trarla dal prossimo.
Bisogna la fede lontana, la fede libera di perdersi
in un assoluto silenzio.
Sacro amore.
Infine, un richiamo
– ogni parte richiede di ritornare
di essere prima o dopo ricongiunta
alla derivazione, all’unità.
La natività – un gesto antico.
L’avevo lasciato inesplorato
inespresso negli angoli
congelato e perduto.
Da allora, dall’altra parte del velo,
ormai mi stavano già cercando e urlavano il mio nome:
Medea, Medea!”.
Attraverso il nome si definisce la personalità e si conclude il Preludio, che introduce il personaggio nei suoi aspetti corporali ed emotivi.
Ci avventuriamo, dunque, all’interno di Medeatiche: “un’operetta lirico-sperimentale, un attuale libretto d’opera in fieri, che si rivolge alla dizione, alla rappresentazione auditiva, secondo precipue convinzioni della cultura musicale dell’autrice” (dall’introduzione di G. Scartaghiande).
Poesia, musica, teatro e psicologia: una comunione tra le arti prende vita tramite il fiato di Medea (e della poetessa):
“io scurissima notte ti trovo disciolta
covata nel ventre per restare insaputa
e anche chiarificata darsi sempre un’ombra
qualcosa di nascosto promosso dal buio
restare oscura e tanto basta per la notte
il cielo stellato precipita dal cuore e
di solo una parola so essere salvata
io
Medea arenata e assente non libera organo
Giasone lo contiene allenato: è il suo muscolo
che riavvolge pensiero su pensiero, il mondo
che si piega su sé stesso in un solo gesto
Medea non sa sapersi l’io, non c’è ritorno.
spazio ancora tra le parole non so dire
non so vedere se non questo tempo e luogo
dello spirito non conosco che la forza
che si rende immagine – il mito per la storia
e allora questa mia vita è violenza e carne
non si parla se non con sangue sottopelle
sento potenze e canti – ma canto? – no, è il mondo!
il mondo che in me è voce e tutta gli appartengo
mi chiedi un nome ma chi dovrei nominare?
in qualche modo rispondo con biografia
resto involuta e crollo a quel corpo
l’amato corpo che è tempismo e geografia”.
Beatrice Achille parte dallo sviluppo del sé e conduce il lettore nelle fasi del ciclo della formazione della coppia, per indagarne l’incastro, cioè “l’insieme di desideri e paure, che costruisce la peculiarità della relazione”[3] (Scabini, Cigoli 2000):
“tu parli in quiete e muovi come questa rondine
dalle cose che ci sono anche senza esistere
ti sento in un prendere il volo e prendi il volo
sopra di me, sopra la terra che ci resta
cerchi di disegnare un atlante dei cieli
trovi correnti d’aria tra i pensieri e preghi
che le tue migrazioni ai mari del sud
ti portino ad un nido in cui puoi dirti casa
sì, in me – se parli – parli con ali spianate”
e l’innamoramento
“sei giardino sacro mi porti nel silenzio
mi inchino al tuo profumo di ulivi e d’aranci
vi ritrovo la mia infanzia che si risolve
Giasone mi fiorisci lungo tutto il nome”.
Per amore, Medea si separa dalla famiglia d’origine e dalla sua cultura, ma in maniera traumatica. Si sradica, con modalità violente, fino ad arrivare ad uccidere il proprio fratello (dopo altre complicate vicissitudini), perché “in Medea, come in tutte le menti primitive, pensiero, sensazione ed azione si confondono[1]”.
Medea vuole rispettare il patto[2] di coppia, a qualsiasi costo, poiché:
“le tue labbra, che sanno di fresca montagna
le indosso all’orizzonte di fianchi di roccia
un muschio su pelle che cerca il sottobosco
tra sentieri segreti che portano a casa,
l’unica casa, si conduce dentro te”.
Nasce una nuova mappatura del mondo relazionale e si pone fine al passato.
Come potersi differenziare (nella coppia e nella famiglia), senza una rielaborazione della propria storia personale e un’integrazione delle differenze culturali? Come spostarsi sui poli appartenenza/separazione e svincolarsi dalla famiglia d’origine, mantenendo una continuità che valuti le diversità?
Nei rapporti di coppia fusionali e disfunzionali si perde il proprio Io, non ci sono confini strutturati tra sé e l’altro: “Medea e Giasone, a questo punto della storia, sembrano come due bambini che s’illudono d’aver trovato, l’uno nell’altra, il genitore perduto di cui non possono fare a meno[3]”, saranno entrambi il solo sostegno l’uno dell’altro e non è accettabile (né tantomeno pensabile) una separazione.
“Sia in Giasone, sia in Medea, la separazione dai loro genitori è avvenuta in modo violento. Ciò, in entrambi, non ha portato ad una vera emancipazione: il rapporto di dipendenza da chi li aveva messi al mondo non viene superato, ma riprodotto per traslazione nella relazione coniugale. Di conseguenza, la separazione fra marito e moglie riproduce, anche nella sua violenza, quella avvenuta fra loro e la famiglia d’origine[4]”.
La coppia però, col passare del tempo, nel quale avranno due figli, non sostiene le fragilità: in Medea avviene una “catastrofe spirituale” a causa del “suo disorientamento di donna antica[5]” che si ritrova a vivere in una cultura diversa dalla propria e nella quale non riesce ad integrarsi. Per Giasone, dopo il periodo di idealizzazione, arriva la delusione perché: “gli manca quell’equipaggiamento interiore che gli consentirebbe di rinunciare a Medea come sostituto materno, di riconoscerla come essere sofferente da aiutare, di restituirle serenità e senso di sicurezza. Tutto questo richiederebbe quell’autonomia e quelle capacità riparative e protettive che Giasone non ha mai acquisito. Di fronte a questo problema irrisolvibile, a Giasone non resta che la fuga: abbandona Medea[6]”.
L’altro rappresenta una parte di sé e, nel momento del distacco, non viene più riconosciuto: Giasone non tiene conto di ciò che Medea ha fatto per lui e diventa “infine un cinico calcolatore e manipolatore, in funzione di un proprio futuro prestigio sociale[7]” (M. Schiavoni, 2022).
“Se, per Giasone, Medea è divenuta del tutto estranea (e, di conseguenza, non riesce più a capirla), ciò significa che l’ha uccisa interiormente. Medea fa altrettanto col marito: lo uccide tramite l’acting criminale della soppressione dei suoi figli[8]”.
La disperazione di Medea non viene rielaborata, ma trasformata in atti vendicativi:
“Giasone mi avrebbe abbandonata,
mi avrebbe tradita e ciò mi umiliava, mi
lacerava inconsolabile. La mia bocca [s’impastò d’acido
gastrico, mentre una fitta bruciante] mi si conficcò tra
le tempie. Non riuscivo quasi più a sostenere [la
massa] ogni passo del corteo era, per me, un
avvicinarsi a uno stomaco ribollente d’ottone”.
La separazione è negata ed esplode la violenza. In queste situazioni, con la perdita dell’altro finisce il senso della propria identità e del mondo: la vita non ha più senso.
“In questo la poesia ribadisce che nell’amore è sempre in gioco una perdita di governo. Non solo del proprio Io, costretto a vivere una esperienza radicale di decentramento, ma anche delle leggi ordinarie del mondo. Nell’incontro d’amore non è, infatti, solo in gioco il destino dell’Uno che deve scoprirsi come Due, ma del mondo stesso. La nascita di un amore non può prescindere dalla nascita di un altro mondo, di un nuovo mondo, non più, appunto, del mondo dell’Uno, ma del mondo del Due. La condivisione segreta dell’evento del mondo come evento del Due è la gioia più propria
dell’amore. Per questa ragione la fine di un amore può rivelarsi così traumatica. Non solo perché la separazione incrina l’unità del Due, ma perché ogni fine porta con sé la fine del mondo nuovo dei Due, rimarca non solo la morte di un amore, ma la morte del mondo che questo amore ha fatto nascere. La fine di un amore è la fine di un mondo. Per questo i poeti hanno sempre cantato insieme all’ebbrezza dell’amore anche l’agonia della sua fine[9]” (Recalcati, La Repubblica, 29 gennaio 2024).
Il compito di rielaborazione di un lutto, inteso qui come fine di una relazione, è quello di trasformare la perdita in una separazione (Recalcati, in Lutti e malinconie, lezione). La separazione comporta un’introversione del dolore e un tempo prolungato di contatto con esso per superarlo, ma, al contrario, per espellere il dolore (e non elaborarlo) lo si trasforma in violenza[10]:
“Operarsi al nero,
uccisi tutti i figli.
Giasone proprio tu mi hai tradito
eppure non importa
come nasce come si dirama a domanda
fuoco ho detto fuoco”
[…]“Ma operarsi al nero ora che il colpo inferto non si
nega, ora che la scelta è data in un gesto che non si
spiega, è impossibile, ci si è fatti a pezzi.
Etica mi teneva tutta assieme coi miei contesti, adesso
sono scomposta in immagini e ricordi,
non c’è rumore, non c’è silenzio, ma solo parti,
parti, altri frammenti”
La violenza porta a una frantumazione del sé, “all’espressione della proiezione sui figli di una sua disperazione che trova sollievo soltanto nella morte, come avviene negli omicidi-suicidi di certi gravi depressi[11]”:
“malinconia mi immergo nel nero più nero
le sagome si sfumano e si distillano
in oscillazione coagula e solve vacillano
la cantilena irrompe e sborda verso un vero”.
La pulsione di morte sovrasta la pulsione di vita, in un disimpasto tra Eros e Thanatos. Per Freud l’esistenza si riduce essenzialmente a due tipi di pulsioni: una pulsione di vita (Eros), che implica il principio della sopravvivenza, e una pulsione di morte (Thanatos), che si manifesta invece in tendenze autodistruttive[12].
“Mettersi nei panni dell’infanticida è tanto difficile quanto necessario, soprattutto per prevenire e contrastare il più orribile dei crimini. Ancor più che negli altri casi, perciò, è opportuno farci guidare dagli Artisti in un percorso che, senza il loro aiuto, saremmo tentati d’evitare; un percorso la cui prima tappa ci porta a Medea. Su questo personaggio, Leonard Shengold dedicò parecchie pagine della sua seconda pubblicazione sul soul murder (assassinio dell’anima), ossia sui gravi abusi che portano alla disintegrazione della vita interiore del bambino e del futuro adulto. In Medea, Shengold ravvisa il prototipo del primal parent (genitore primario) che porta all’estremo la sua distruttività” … “Il suo mondo interno è scisso in due parti, di cui l’una si accanisce contro l’altra ed ella traspone sulla scena del mondo esterno quel che avviene nella sua vita interiore. La parte di sé che Medea uccide nei suoi bambini è sé stessa figlia legata al padre e dipendente da lui[13]”.
Il mito di Medea è stato rappresentato anche nel cinema, ad esempio, da Pasolini e da Von Triers. “Stupefacente il grado di psicologizzazione impresso da Pasolini al testo euripideo per cui il senso del tragico assume nuove e forse più attuali e profonde sfumature (se ne ricorderà anche von Trier quasi vent’anni dopo nella realizzazione della sua Medea, riproponendo immagini che si sovrappongono al volto terrifico della barbara sposa dell’argonauta) celando dietro la tenerissima e spietata atrocità del gesto materno infanticida di una donna e del suo odio per l’uomo che, una volta ottenuti i suoi favori, la ripudia e abbandona, il significato metaforico di una violenta crisi socio-culturale [1]” (M. F. Giorgio, 1995).
L’elemento del fuoco, inoltre, simbolo delle passioni, è adoperato per dare la morte alla futura moglie di Giasone e ai propri figli ed evoca la ricerca di una catarsi, che non avverrà mai:
“miei ellebori sgualciti nella neve
tracciano di questo bosco sacro e arso il bordo
sempre più lieve la brace nel focolare
e sempre più sordo quel canto famigliare
si solleva cupo un pianto un grido feroce
un urlante del nome a gran voce a gran voce
è Giasone, mi cerca nell’alta marea
pronuncia… pronuncia il mio nome:
ma quel nome non mi appartiene più”.
Tutto è perduto e Medea volerà via su un carro trainato da draghi alati, inviatole dal dio Sole.
Beatrice Achille narra una tragedia familiare ed evidenzia il drammatico fallimento dei processi evolutivi dei membri della coppia, legati all’individuazione e alla differenziazione, necessari per accettare la separazione.
La poetessa, attraverso il mito, propone le facce nascoste dell’essere umano contemporaneo, che conducono alla violenza, all’uccisione o alla sopraffazione.
Nella sezione Frammenti ci descrive il Preludio del dramma, con un parallelismo tra stati d’animo ed eventi della natura, presagio di una tempesta interiore:
Premessa o sul rapimento di Europa
“[Con il controllo della forza di gradiente accelerazione
di]
respiro
[…] personalità nel ciclo, rivoluta, riformata e in lei l’ariadi primavera [compressa in spasmi atmosferici].
L’incontro [tra gravità e depressione instabile le
implodeva nell’anticiclone]
nella bocca [dello stomaco]
mareggiate e bufere, mentre intanto [tra vene e arterie]
il vento
sospinto da collisioni.
In lei pressioni alternate.
Conteneva in un solo alito il fischio secco che anticipa
la Bora orientale
predestinata […]
Riconobbe subito il sibilo blu ghiaccio tintinnante con
il suo rapido richiudersi giù – [un ciclone mediterraneo] si preparava.
[La meteorologia] dei suoi tendini si slegònella voce
e poi parola”.
Beatrice Achille, inoltre, nella sua opera ancora inedita Preludio a Lunarità, approfondisce metaforicamente le relazioni, tramite il ciclo lunare e il legame tra luna e sole. L’autrice indica la possibilità, di ciascuno di noi, di agire per brillare di luce propria, in una metafora che riguarda un cambiamento personale, necessario per ritrovare la magia dentro se stessi e costruire un rapporto equilibrato con l’altro:
“la notte intiepidita da un raggio rifratto
voce celeste che s’illumina insaputa
ma la volontà deve volere ogni gesto
così da innalzare a meraviglia anche l’atto
silenzio distillato in musica o canzone
danza l’esistenza sino a libertà
il tempio della possibilità d’azione
alla luna le sue porte serrerà
si deve evolvere la lunarità
trasmutarne la luce nel ritorno al Sole
ondula polvere si ricaverà
evaporate al fuoco le ombre più paurose
diviene il campo dell’anima che innamora
in cui sboccia morale la propria magia
rarefatta si ritira l’analogia
ogni parola si ristringe poi svapora”.
La poetessa apre delle importanti riflessioni sui legami e sulla separazione e descrive il crollo del senso del mondo, che può avvenire in conseguenza a dolori non elaborati.
“Jacobs (1988) metaforizza l’uccisione, definendo come Complesso di Medea il comportamento materno finalizzato alla distruzione del rapporto tra padre e figli dopo le separazioni conflittuali: così l’uccisione diventa simbolica e ciò che si mira a sopprimere non è più il figlio stesso ma il legame che ha con il padre[2]”.
Come esperti della relazione di cura è fondamentale riconoscere le note del Preludio del dramma, ovvero l’atto della tragedia che riguarda la perdita, per sviluppare un percorso terapeutico adeguato a garantire l’accesso di entrambi i genitori ai figli.
Beatrice Achille fa spaziare il lettore tra Mythos e Logos, tra ragione e sentimento, tra appartenenza e separazione. La poetessa attraversa temi antichi e sempre moderni, ancora oggi non risolti, e lega poesia e psicologia, in cerca di speranza e di un’evoluzione.
[1] Giorgio M. F. (1995) https://www.spietati.it/medea/
[2] Gallo A. (2010) La sindrome di Medea http://www.glipsicologi.info/wordpress/la-sindrome-di-medea.html
[1] Nanni S. (2020) Il fallimento tragico dell’emancipazione e l’infanticidio: la Medea in Euripide e in Pasolinihttp://www.psychiatryonline.it/node/8850:
[2] Scabini, Cigoli (2000) Il Famigliare. Legami, simboli e transizioni. Raffaello Cortina Editore, Milano.
[3] Nanni S. (2020) Il fallimento tragico dell’emancipazione e l’infanticidio: la Medea in Euripide e in Pasolinihttp://www.psychiatryonline.it/node/8850: la Me
[4] Nanni S. (2020) Il fallimento tragico dell’emancipazione e l’infanticidio: la Medea in Euripide e in Pasolinihttp://www.psychiatryonline.it/node/8850: la Medea in Euripide e in Pasolini
[5] Nanni S. (2020) Il fallimento tragico dell’emancipazione e l’infanticidio: la Medea in Euripide e in Pasolinihttp://www.psychiatryonline.it/node/8850
[6] Nanni S. (2020) Il fallimento tragico dell’emancipazione e l’infanticidio: la Medea in Euripide e in Pasolinihttp://www.psychiatryonline.it/node/8850
[7] Schiavoni M. (2022) https://quinlan.it/2022/03/21/medea/
[8] Nanni S. (2020) Il fallimento tragico dell’emancipazione e l’infanticidio: la Medea in Euripide e in Pasolinihttp://www.psychiatryonline.it/node/8850
[9] Recalcati M. (2024) Nella poesia si incontrano Eros e Psiche, La Repubblica, 29 gennaio.
[10] Fornari, Psicoanalisi della guerra in Recalcati, lezione su Lutti e melanconie.
[11] Nanni S. (2020) Il fallimento tragico dell’emancipazione e l’infanticidio: la Medea in Euripide e in Pasolinihttp://www.psychiatryonline.it/node/8850
[12] Freud S. (1920) Al di là del principio di piacere.
[13] Nanni S. (2020) Il fallimento tragico dell’emancipazione e l’infanticidio: la Medea in Euripide e in Pasolinihttp://www.psychiatryonline.it/node/8850
[1] Achille B. Creusa o sull’invidia, in Mediatiche.
[2] Nanni S. (2020) Il fallimento tragico dell’emancipazione e l’infanticidio: la Medea in Euripide e in Pasolinihttp://www.psychiatryonline.it/node/8850
[3] Scabini, Cigoli (2000) Il Famigliare. Legami, simboli e transizioni. Raffaello Cortina Editore, Milano.