“Il mare va a fuoco
sbatte sugli scogli
ed è l’immagine della poesia tutta”
(G. Ratano, Nù bbìsciu cchiù nnenzsi)
Gabriele Ratano (1999) è attore, autore e poeta performativo. Vicecampione italiano di Poetry Slam2023, nel 2015 ha vinto il primo Poetry Slam U20 d’Italia.
Diplomato in recitazione all’Istituto Cinematografico Antonioni, è tra i trenta aggiudicatari della borsa di studio di alta formazione teatrale presso Officina Pasolini a Roma.
Si è esibito in numerosi festival di poesia in Italia e all’estero, è stato finalista nella sezione video del Premio Dubito di poesia con musica nel 2021, è il più giovane tra i sei artisti italiani scelti per la residenza dell’INAF – Istituto Italiano di Astrofisica, Poetry for the sky, presso Palazzo Esposizioni a Roma. Organizza workshop di scrittura e arti performative in istituti superiori ed è direttore artistico degli eventi di Slam Poetry per il collettivo milanese Zenit.
Gabriele Ratano narra della sua famiglia e terra d’origine, con note dolenti e parole che tratteggiano immagini. Il poeta utilizza il dialetto del Basso Salento, che viene parlato in provincia di Lecce.
In un viaggio intergenerazionale, ci presenta:
UN UOMO ANZIANO
“Un uomo anziano
con le rughe che parevano terra
quando c’è siccità
stava seduto su una sedia di plastica
con la coppola in testa
il bastone tra le mani
e un cane senza razza ai suoi piedi
Con sguardo indagatorio
mi ha chiesto
Giovane! Ma tie, de ci si fiu?*
Sono figlio di Antonio, figlio di Nunzia
della Renault 4 verde del ’74
in cui giocavamo da bimbi
delle dita nella salsa a giugno
del canneto che a luglio prese fuoco
e delle tavolate in quaranta ad agosto
Eravamo una famiglia una volta all’anno
soltanto d’estate
Il vecchio mi ha squadrato con le labbra dischiuse
non sembrava capirmi
mi guardava stupito
come se non fossi mai stato lì
E mi ha chiesto di nuovo
Giovane! Ma tie, de ci si fiu?
Sono figlio di tua figlia, nonno
non mi riconosci?
La gravità del suo sguardo
da vecchio che ha perso il contatto col mondo
bruciava il mio sorriso
che si increspava in amarezza
Si è alzato dalla sedia di plastica
col bastone ha affaticato due passi
con il cane senza razza al suo seguito
Nonno, nonno, a ru šta bbai?*
Dove stai andando?
Si è allungato e ha raccolto
un grappolo d’uva dal pergolato
Ha guardato un acino cadere
e il cane senza razza giocarci
Me chiedi a ru šta bbo? Dove sto andando?
Giovane! La gravità è una livella
e io vado dove vanno tutti
verso il centro della Terra”.
[…]*trad. dialetto salentino – italiano
Ma tie, de ci si fiu? Ma tu, di chi sei figlio?
A ru šta bbai? Dove stai andando?
Il poeta descrive, attraverso vicende personali e universali, la fase del ciclo di vita della senilità, in cui il decadimento della memoria si alterna a una inaspettata lucidità.
Nel testo a seguire, la storia familiare si intreccia con quella della guerra[1]:
NÙ BBÌSCIU CCHIÙ NNENZSI
Il mare sbatte sugli scogli
ed è l’immagine della poesia tutta
Una scatola di latta
una nave, un gigante di ferro
si fa strada tra le secche di Leuca e di Ugento
Trasporta quattromila tonnellate di benzina
per fare la guerra
I pescatori si sono accasati
ché lo sanno
Una nave che trasporta la guerra
la guerra la attira
Nel cielo scatole di latta e persone
giocano al tiro a segno
Bombardano, fanno la guerra
Colpiscono, affondano
Il mare va a fuoco
sbatte sugli scogli
ed è l’immagine della poesia tutta
Si mischiano nel mare
benzina, sangue, fumo, detriti
e ideali sbagliati
È una giornata di sole
Cielo e mare il colore l’han perso
ma è una giornata di sole comunque
Se gli occhi dei pescatori
non vedono luce
è colpa della guerra
Si inarcano schiene, si tendono ugole
Lo scalpiccio del fuoco
si fonde alle grida
di tibie che non sono più tibie
di scapole che non sono più tali
Il mare va a fuoco
sbatte sugli scogli
ed è l’immagine della poesia tutta
Si bruciano retine
nel fumo, nel fuoco
nel mare si nuota senza braccia
e si sente sussurrare
Nù bbìsciu cchiù nnenzsi
Non vedo più niente
Mio nonno in campagna oggi
guarda i suoi ulivi
monchi, finiti
da una malattia[2]
che non si sa come, quando, perché
Solleva le spalle, inarca le ciglia
Nù bbìsciu cchiù nnenzsi
Non vedo più niente
dice dei campi
del futuro
della vita in generale
Ha lo stesso sguardo vacuo
di quando è morta mia nonna
e gira per la casa
come lancette di orologio
stanche di esistere
Finita la battaglia
c’è solo il silenzio
e corpi immondizia
da recuperare
Nù bbìsciu cchiù nnenzsi
Lu mare šta pperde culure
la terra nù ttene valore
Strìncime forte amore
ca vóju cchiánciu
ca vóju cchiánciu
ca, sine, su ommu
ma vóju cchiánciu
Ca lu mare šta pperde culure
e lla terra nù ttene cchiù valore
Nù bbìsciu nenzsi
Nù bbìsciu cchiù nnenzsi *
È una giornata di sole
Di quei volti spauriti
e bruciati e finiti
ci è rimasto il catrame nella sabbia
I bambini ci fanno i castelli
e l’acqua, la notte
se li porta via
* trad. dialetto salentino – italiano.
Non vedo più niente
Il mare sta perdendo colore
la terra non ha valore
Stringimi forte amore
ché voglio piangere
ché voglio piangere
ché, sì, sono un uomo
ma voglio piangere
Ché il mare sta perdendo colore
e la terra non ha più valore
Non vedo niente
Non vedo più niente
Tramite questi versi possiamo riflettere sul dramma della guerra, sul sostegno delle relazioni, sul significato del vedere e sulle rappresentazioni interiori legate all’ambiente affettivo circostante:
“Non vedo più niente
Il mare sta perdendo colore
la terra non ha valore
Stringimi forte amore
ché voglio piangere”.
Il poeta affronta argomenti amari e dolorosi, in una comunione di stati d’animo e natura. Tra campi, scogli e onde del mare che vanno a fuoco:
“Il mare va a fuoco
sbatte sugli scogli
ed è l’immagine della poesia tutta”
offre al lettore l’immagine della poesia tutta, in un contesto di ideali sbagliati, atrocità e dissoluzione della realtà conosciuta fino a quel momento.
Ratano riproduce degli spaccati sul mondo, finestre aperte sulle relazioni, che fanno riflettere e attivano forti emozioni:
NINUZZO
Ninuzzo stava in piedi sulle scale
al santuario
Guardava lo Ionio e l’Adriatico
farsi abbraccio
e le rondini volare
Si chiedeva dove andassero
Allu bbar
nu rištianu
prendeva il sole all’aria aperta
con una tazza vuota di caffè
usata a posacenere
Ninuzzo, per favore
vammi a prendere il tabbacco
fai veloce e tieni il rešto
Ninuzzo correva dall’altra parte del paese
La tabbaccara lo vedeva
e preparava già il pacchetto
Salutami tuo padre gli diceva
ma Ninuzzo era già fuori sulla strada
La domenica faceva il chierichetto
Figlio di educazione cattolica e madonne
appese a chiodi in tutta casa
sapeva a memoria tutta messa
Una sera, un giovedì
era entrato nella chiésia per pregare
ché una rondine era morta sulle scale
al santuario e voleva farle il funerale
In sacrestia la porta era socchiusa
e ha visto il prete
farsi abbraccio con il padre
come Ionio ed Adriatico
Non aveva visto mai
manco un bacio dentro casa
e mo col prete
questo mare
Ninuzzo ha raccontato a mamma sua
della storia in sagrestia
e la mamma ha detto
Cittu!
Nù sse dìcene ‘šte cose
Prometti a mamma che ‘sto fatto
non lo dici mai a nessuno
mancu a ssirda[1]
Giura allu Signore, al Padre Nostro
ca štai cittu, Ninuzzu!
Sennó
cosa pensano al paese?
Ninuzzo se n’è andato sugli scogli
a parlare con le rondini
Rindineddha mia, che devo fare, stare cittu?
Ca se è Dio che me lo chiede
allora è giusto!
Il padre è morto un anno dopo di incidente
Il prete ha fatto l’omelia più commovente
che si potesse ricordare
Le matrone del paese
al funerale, messe a lutto
facevano condoglianze
con strette di mano, segni di croce
e sguardi al cielo e baci al pollice e
quant’era giovane
pace all’anima sua
La madre stava zitta
ringraziava a testa bassa
con un velo nero in faccia
versava lacrime di acciaio
Adesso ha tolto il lutto
tiene un vestito a fiori
va agli scogli con Ninuzzo
la domenica mattina
Rindineddha mia, che fai, vai via?
Vado all’Africa, Ninuzzo
ci vediamo l’anno prossimo
La madre gli dà un pizzico
allo stomaco e gli dice
Don Giuseppe ha benedetto casa
prima di andare via per sempre
Ha versato lacrime di incenso
gli ho offerto un calice di rosso
Siamo stati lì a guardarci
due metà di un mare solo
La madre lo ha stretto forte
come un pezzo di un puzzle stringe un altro
In quell’abbraccio, Ninuzzo
sentiva tutto lo Ionio
sentiva tutto l’Adriatico.
Il poeta rappresenta spesso la desolazione umana e le difficoltà relazionali, ma anche la capacità di individuarsi, separarsi e gioire del bene altrui:
NINA, TI VEDO FELICE
“Nina, ti vedo felice
e penso che è bello così
Nina, che hai le scapole rotte
Ballo un piccolo valzer
in tuo onore, da solo
Le cose non dette
sono crosta terrestre
Sedimentano piano
Un’omissione si fa più feroce
di ciò che è realmente
e logora lenta
Come un fiocco di neve diventa valanga
una carezza di piuma
colpo di spranga
Io, nello spettro del probabile
ho sabotato la felicità mia fattibile
e mi sono rivelato fuliggine
e fiori appassiti ai tuoi occhi
Cosa siamo noi due
se non proiezioni di un mondo ideale?
Condizionale e periodo ipotetico
Cosa siamo
se non un se fossi, se avessi
saremmo, saresti?”
[…]“Nina, che hai le scapole rotte
la schiena che brilla di luce legittima
ed embrioni di ali di fata.
Che tipo di uomo tu credi che sia?
Io sono un bambino
sì, sono un bambino
ma con le costole rotte
ché almeno sommati facevamo un torace
Nina, ti vedo felice
e penso che è bello così
Ti vedo volare oltreoceano
con le scapole in fiore
la schiena che brilla di luce legittima
e le ali di fata formate
Ora che sei un’idea
in un altro emisfero
che il nostro cielo ha colori diversi
Dimmi se hai finalmente trovato
il tuo posto nel mondo
Ballo un piccolo valzer
in tuo onore, da solo
perché sto imparando ad amare
senza calpestare i piedi”.
Gli aspetti relazionali attraversano inevitabilmente la formazione del sé, che risiede nella strutturazione metaforica del torace, che permette di uscire dalla fusione e sentire l’altro. Questo spostamento consente di comprendere la diversità, provare empatia e amore, in qualsiasi forma venga assunta:
KALINIFTA
Nfuca, nfuca, nfuca!
Affoga beddhu pecuraru
insieme a quella buona a nulla
Ca mo scateno una Tempesta
ca manco Shakespeare, manco Giuda
ché mi bbasta un bacio all’acqua
e anche Nettuno si inginocchia[1]
Aristula e Melisso
boccheggiano nel mare
L’invidia di Leucàsia
gli ha tolto tutti i sogni
Riaffiorano distanti
esanimi, spaiati
questi amanti senza colpa
sotto gli occhi di Minerva
La dea piange, ne ha pietà
guarda i corpi sulla riva
e li trasforma in pietra viva
scogli per l’eternità
Ora sorgono due lingue
in mezzo al mare: punta Ristola e Meliso
Hanno preso i loro nomi
Anni dopo
una notte romantica trascorre
Aristula e Melisso
hanno imparato a darsi amore da lontani
a dirsi tutto nel silenzio
lanciandosi le onde
con lo scirocco ed il maestrale
Aristula
Questa terra è così bella e maledetta
che Medea ci uccise i figli
e si sentono i lamenti ancora oggi
Ca nc’era lu sule, lu mare, lu jentu
ancora prima
che diventasse uno slogan per turišti
ancora prima
che la sabbia contraffatta
riempisse le cavità dei miei sospiri
da non avere più la forza di dir nulla
Vorrei piangere di diritto
ma non ho spazio per le lacrime
Hanno scelto di distruggermi
fare un resòrt sopra al mio ventre
Aristula
Adesso che mi impiccano il respiro e mi cementano
che mi riempiono i polmoni con un parcheggio di due piani
coi piloni conficcati nelle arterie mie
Volevo dirti solo
che avrei voluto un’altra notte romantica
a lanciarci le onde nel silenzio
con lo scirocco ed il maestrale
ad aiutarci a darci amore
Aristula
Volevo dirti kalinifta
come le antiche civiltà
prima di perdersi nel sonno
Buonanotte, kalinifta
griderò nella tempesta
come i figli di Medea
Al Maestrale e allo Scirocco
buonanotte, kalinifta
buonanotte, kalinifta
beddha mia
Non conosco altro linguaggio che l’afflato
e forse è l’ultimo che faccio nella vita
In questo mondo di cemento
il mio sguardo di scogliera
non se lo merita
un ombrellone in prima fila.
Il titolo della poesia Kalinifta significa buonanotte e deriva dal dialetto grico parlato nell’area della Grecìa salentina.
I testi di Ratano trasformano la quotidianità di una piazza e delle persone che la abitano in poesia:
ALLA CHIAZZA DELLA CHIÉSIA
Alla chiazza della chiésia
vecchiareddhi perdiggiorno
stanno seduti alla panchina
Dduma e štuta sigaretta
dduma e štuta, dduma e štuta
accendi e spegni
e mina ‘n terra
I bimbi giocano
si štroppiano i ginocchi
Ve lo bbuco štu pallone!
senti urlare lu bbarbiere
Non ha figli
e šti bastardi
gli hanno rotto già una volta la vetrata
Cinque fìmmane piccìnne
giocano a campana
Una bimba lancia un sasso
e fa tre salti sopra un piede
Si aspettava ca turnasse ssignurìa
dalla campagna
In lontananza si sentiva
trombettare l’apecar
È rriàtu, è rriàtu
è rriàtu lu papà!
Lu Úcciu usciva dal garagge con due secchi
La Teresa si affacciava alla fanéscia
e poi chiedìa
Úcciu, cce à nnuttu?
Che hai portato?
E lu Úcciu rispunnìa
Àggiu ccotu ‘e ficarigne
‘e ficarigne pe lle fie
Ho raccolto i fichi d’India
i fichi d’India per le figlie
Se manciàene ‘e ficarigne
e turnàvane alla chiàzza
Ca baštava nu ggessettu sull’asfalto
e una gamba per saltare
ed era fešta
Alla chiazza della chiésia
mo è rimasto solo un vecchio
Sta seduto alla panchina
È llu bbarbiere
Dduma e štuta sigaretta
dduma e štuta, dduma e štuta
accendi e spegni
e mina ‘n terra
Si alza pazzo e grida al vento
Ve lo bbuco štu pallone!
Ride solo, denti gialli
non ha figli
mo gli mancano
i figli degli altri
Le tegole d’amianto
si stanno sgretolando
Stanno lì da cinquant’anni
adesso coprono case vuote
Siamo scappati
dice mamma, sta di spalle
Sta pulendo i fichi d’India
presi al centro commerciale
Alla chiazza della chiésia
mo non ci sta nessuno
Un lampione va per nulla
dduma e štuta, dduma e štuta
accendi e spegni, notte e giorno
Ogni tanto si sente ancora
trombettare un apecar
E nel vento di grecale
cinque fìmmane piccinne
sussurrare
È rriàtu, è rriàtu
è rriàtu lu papà.
Il poeta assume i connotati di un “paesologo”, narra episodi di vita di paese (che ricordano il Verga, in forma di poesia) e pone il problema dello spopolamento.
L’autore descrive anche un particolare affollamento:
IL MIO COINQUILINO
“Il mio coinquilino è un fantasma
Non lo vedi
ma mette tutto in disordine
Se fossimo stati della materia
lui sarebbe aeriforme
particelle confuse della propria esistenza
mentre io liquido, mi adatto al recipiente
e riordino
Il mio coinquilino è silente
invisibile, e persiste nelle mie viscere
Il mio coinquilino è per sempre
Abbiamo firmato un contratto
di coabitazione dello stesso monolocale
Questo corpo
Il mio corpo è un monolocale
che il mio coinquilino abita tutto
E non c’è spazio di privacy
Si intromette
come un Cookie sul telefono
rifiuta, e ricompare
rifiuta, e ricompare
rifiuta, e ricompare
Va bene accetto, ma solo l’essenziale
Ti prego, lasciami in pace questa notte d’amore
ché una volta tanto vorrei trascorrerla in due
e non pensare anche a te
Il mio coinquilino ha bisogno di cure, di aghi, siringhe
Il mio coinquilino è ubiquo, sta ovunque
È coinquilino di altri milioni di persone
contemporaneamente, e non paga l’affitto
Il mio coinquilino
ha un passato da killer
Ha fatto cent’anni di libertà vigilata
da quando
Canada, 1922
Da una finestra di ospedale una madre si affaccia
fa il segno di croce
poi abbraccia suo figlio
Leonard, un quattordicenne in fin di vita
che riceve la prima dose di insulina della storia
e diventa un quattordicenne e basta
Milano, marzo 2014
Da una finestra di ospedale mia madre si affaccia
ha gli angoli piegati delle labbra
stoica, mi guarda
Io sollevo la maglia quel tanto che basta
da scoprirmi la pancia
per bucarla con un piccolo ago
e mangio un piatto di pasta”
[…]“Il mio coinquilino fantasma
bussa dietro la sua porta di pancreas
e mi fa una domanda
Ma mo, con sta cosa che hai scritto, che vuoi dimostrare?
Non lo so, Diabete, non lo so
forse sto cercando di metabolizzare
è che più cerco di zittirti
più diventi ingombrante
e allora ho deciso di farti parlare
Forse un monolocale non ci basta
Io traccio una linea
sul lobo frontale
così abbiamo finalmente due stanze
Ti relego in un spazio mentale
perché esisti
ma non mi puoi definire
No vabbè!
Ma tu sei un geometra
un agente immobiliare
Mo’ vaglielo a dire al catasto
che senza soldi né carte ci siamo fatti
un bilocale”.
Ratano sviluppa la tematica della malattia, attraverso un dialogo tra se stesso e il diabete, impersonificato nel coinquilino. Tramite l’umorismo e un linguaggio sobrio ed efficace coinvolge sempre il lettore.
Il poeta si dedica anche all’intimità dei legami affettivi (e rievoca la poesia Quando dormi di Prevert):
A CHE PENSI?
“Eravamo nel letto
Mi hai chiesto
A che pensi?
Che la materia è composta da atomi vuoti
quasi al cento per cento
e non riesco a capire se ciò che c’è intorno
le mani, le guance e le labbra che sfioro
sono concretezza o astrazione”
[…]“Danziamo illusioni ambulanti
a far cerchi su cerchi
concentrici e non
intersecando le curve mie con le tue
per ritrovarci a interscambi, coincidenze
binari paralleli e incidenti
che giocano a rincorrersi e poi si allontanano
come stormi intorno ai tralicci dell’alta tensione
Sono nato per caso
per congiunzione astrale, così come chiunque
E frequento persone nate per caso
per congiunzione astrale, così come chiunque
Ci siamo conosciuti per caso
per congiunzione astrale, così come chiunque
Ci siamo intersecati i binari
volendolo
Ogni tanto ci penso, che siamo funamboli
che la vita è la morte in download
E mi blocco, mi fermo, mi incarto su me stesso”
[…]“E penso che a volte i funamboli
perdono l’equilibrio e cadono nel vuoto
Finiscono di esistere
come tutti i punti di spazio e di tempo di mondo
come la concretezza
come l’astrazione
di mani
di guance
di labbra
che sfioro
Eravamo nel letto
Mi hai chiesto
A che pensi?
Ti ho detto
Niente”.
Proprio questo, a volte, succede nelle coppie: un niente può racchiudere una complessità di pensieri, che non trovano espressione in una frase articolata (non tutto è condivisibile), ma piuttosto in un gesto
di mani
di guance
di labbra
che sfioro.
Ratano approfondisce argomenti che spaziano tra problematiche relazionali, sociali e ambientali e coglie l’immagine della poesia tutta.
[1]Affoga, affoga, affoga
Affoga bel pastore
insieme a quella buona a nulla
ché adesso scateno una Tempesta
[1] Neanche a tuo padre.
[1]La poesia fa riferimento al bombardamento di una petroliera nei pressi di Torre Vado, nell’agosto del 1942.
[2]La Xylella.