“Quello che di casa mia mi stupisce
è un incanto inedito ogni notte:
l’abusato canto del grillo
i guaiti snervati dei cani,
chi mi scalda in silenzio le mani
ed accoglie la tregua
tra ieri e domani”
(Gloria Riggio, Germano)
Il tema della fragilità articola e unisce la sfera individuale con quella collettiva, nella cornice ampia dell’attualità. La parola fragilità deriva da frang-ere ovvero rompere e si correla a fragmentum pezzi, frammenti: indica la tendenza a rompersi, sia sul piano della struttura della materia e del corpo, sia sul piano psicologico dell’identità e delle emozioni. Nelle società in cui tutto ciò che non è ben funzionante viene scartato, stiamo disconnessi su piattaforme flessibili e andiamo alla deriva: ci muoviamo sulla crepa della fragilità ed è impossibile mantenere un equilibrio, ci ammaliamo o disperiamo. Attraverso la poesia, possiamo innalzare un canto che lenisce le ferite, perché ogni essere umano rappresenta una nota sulla partitura complessa della globalità.
I testi poetici di Gloria Riggio[1] rappresentano un approdo alla conoscenza, alla consapevolezza e alla coscienza della fragilità, che diventa valore acquisito in un percorso interiore evolutivo all’interno della collettività.
Fragilità personali e sociali si intrecciano e si alimentano a vicenda, in un contesto culturale in cui tutto è CHIUSO PER LUTTO
Basta, basta così, giù il sipario: non me la sento stasera.
Chiudete tutto, vi rimborso il biglietto,
io questa sera quasi balbetto, io questa sera dopo secoli
e secoli,
mi dispiace: sono senza voce
e poi mi sento sporca, mi sento lercia,
mi sento che tutto ciò che l’uomo mi tocca o mi sposta poi mi si infetta.
Ma che cosa pensate?
Che si possa sempre far finta che la tosse sia solo di passaggio?
Che non esista da qualche parte un fumo costante,
un gesto guasto, un vizio che mi alimenta il cancro?
No – io dico meglio lasciare stare
questa sera
ché il mondo intero mi sembra una preghiera
e nessuno che l’ascolta
il mondo intero mi sembra una rivolta
e nessuno che si unisca
il mondo intero mi pare una gran sarta
e nessuno che si vesta
Che mi pare d’essere dentro una partita di monopoli,
a cui non ho chiesto di partecipare
e un manipolo di poche mani manipoli le sorti dell’intero gioco
e un poco mi pare di stare gelando e un poco mi pare di stare sotto un fuoco
e arde e ordigni che esplodono e ovunque, mai per un momento che smetta,
e un poco mi pare che ci sia un silenzio d’ovatta
e un poco dopo mi pare il frastuono di una risacca
o l’urlo straziante di un vento,
io sono quando per strada incontri uno che hai amato
e quello ti riconosce a stento
e mi sfianca
questa sera io sono così stanca
che non ho aria da darvi,
non ho gocce d’acqua, braccia di terra a farvi da culla,
sono stanca questa sera
sono strozzata,
come la gola di un fiume e il rigagnolo di fogna cui è ridotta la sua foce
sono il suo letto d’acqua stagnante e lo sciame di mosche che gli gonfia il grembo, sono le sue piaghe, sono il suo stento, la vita sottratta ad ogni alga,
ad ogni marna, ad ogni pesce, io ho i pugni pieni di peste
sono un gorgo di pece e di sale
sono il mare che sale, che sale, che sale,
e che piano ricopre le strade
come il farsi spazio fra le case dei tentacoli di almeno dieci piovre
sono un cielo che piove rancido,
sono lo strascico di una discussione chiusa male, in cui non ci si è capiti,
sono una pace che continua a fare feriti, addirittura caduti,
– ma
quando ci siamo perduti?
Io scusate, questa sera sono sfinita
sono la terra che si è inasprita
– brace che brucia senza fiamma e si fa tomba
che affanna che affama che affonda
io sono la terra infeconda, l’ennesima partenza,
una strada dissestata,
la donna assetata dalla zolla secca che prima
chiamava casa
sono le vene da cui si è strappata le radici
in cambio di giorni non dico felici ma almeno un poco più facili,
sono il risultato della somma di tutti i nostri alibi,
il paradosso criminale di morire di sete in mare,
sono chi chiede una promessa e l’assenza di risposta,
sono l’altra parte della costa, sono il costato rotto dell’intera terra
e sono seduta all’asta delle mie stesse ossa,
e mi si chiede quanto costa quel che resta,
sono la crosta di una ferita che un bambino continua a mangiare per scherzo,
sono ciò che si è perso, un verso che non dice più niente a nessuno,
la risultante delle scelte non dico di tutti,
almeno di ciascuno.
Spesso mi chiedo
chissà se si muore uomini per rinascere corteccia d’ulivo o biancospino,
se si continua ad essere in qualche modo in nuova forma nuovo respiro,
solo in un modo di cui non sappiamo e di cui, se saremo, non ricorderemo.
Pensa
essere parte di un filo d’erba, di una roccia, di un’erta, del guscio di una perla, della linfa della terra, del magma, della riva, della sua schiuma bianca,
allora sapreste cosa intendo quando dico di esser stanca o quando mi domando
in una sera come questa se, crollando, ci sia qualcuno che mi tenga.
Con Gloria Riggio attraversiamo l’aridità, tramite similitudini e metamorfosi tra corpo e ambiente, in combinazione con i quattro elementi naturali in una versione animata e suggestiva. Leggendo, ci sentiamo storditi dal dolore, tra zolle e onde: si diventa aridi o ci si infetta, contraendo i mali della società. La natura testimonia e contrassegna i drammi umani, le violenze, le guerre, le distruzioni e la catastrofe climatica. Chi è che parla, la poetessa o la terra stessa? Le due voci si sovrappongono, in un dialogo personale e meta-personale, che rimane volutamente non specificato e libero di essere interpretato personalmente.
Il poeta parla a nome della Terra, in un rispecchiamento individuale e collettivo da cui parte una sovrapposizione tra poesia e problematiche della società nei multipli aspetti. Gloria Riggio, anche attraverso le sue incredibili capacità performative, mette in atto un processo di drammatizzazione, mosso da un conflitto interno e sociale allo stesso tempo, tellurico, che riguarda il ruolo di portavoce della poeta, nasce sotterraneo, si snoda e si mimetizza in alcuni testi, in cui rievoca e suggerisce (come inPeriodo ipotetico) e piano piano alza la voce, grida e denuncia…
La tematica ambientale dell’emergenza climatica, della salute globale e delle infezioni sociali manifestano che non esiste giustizia climatica senza giustizia sociale e viceversa. Con l’autrice si parte da qualcosa di personale, ci ritroviamo sulla riva dove è cresciuta e ci si immerge nelle problematiche più dure dell’umanità, che rifiuta la diversità e perde la propria umanità.
MADDALUSA
Maddalusa è il nome della riva sopra cui sono cresciuta
una lunga distesa di conche strette da bracci di scogli;
oltre le conche, oltre gli scogli, fiero e senza fine,
il mare
bisognava camminare per mezz’ora sulla banchina,
bambina, seguivo le orme di mio padre sulla strada che s’apriva
lui arrivava sempre un poco prima, aveva le gambe più lunghe delle mie
pause, piegata sulle caviglie a raccogliere conchiglie,
pezzi di maiolica o bottiglie.
Giunto davanti il nostro lembo di mare
tra la terza e la quarta conca in particolare, faceva sempre lo stesso rituale:
inala trattieni esala sorridi
inala trattieni esala sospiri
– Ca muoviti![1] –
la sua voce scoprirmi distante di ancora cento passi e
le parole vagolare dentro una brezza salmastra di sale: – Ca muoviti!
Dalla sua voce sentivo commuoviti, complice il mare con tutto quel sole
io fossi stata da sola mi sarei probabilmente perduta
quando finiva io ero arrivata e allora diceva – senti che aria –
e io guardavo il mare e facevo il suo rituale
sia chiaro, l’aria la sentivo sempre uguale
ma imparai a memoria il rituale
in attesa di qualcosa da capire.
Talvolta sapete passano gli anni,
ci si scorda ciò che s’era messo in conto di finire
io m’ero messa in conto di capire il mare
ma ormai avevo acquisito il rituale e allora
inala trattieni esala sorridi
inala trattieni esala sospiri
Maddalusa è il nome del mare dentro cui sono cresciuta,
una spiaggia lunghissima fatta di conche.
Le conchiglie che portavo a casa erano bianche
le pietre quelle con le forme più bislacche
i vetri levigati li donavo a chi chiedevo che mi amasse
il sale era lo stesso che un giorno come gli altri erose le carcasse
di centodiciassette persone affogate in giugno al largo del lembo
su cui un busto di uomo ancora vestito, tracimava in avanti e poi indietro
come cullato
e le preghiere un mucchio muto di moniti, – consòlati –
ma le maree diventano martirî e le madri martiri
i morti opinioni da dibattere, le braccia zattere
il mare aperto un immenso carcere.
Il veto dell’uomo sull’uomo
in vetro ridotto dal suono
del vento che porta in suo dono
un ventre di mare in risacca: una scarpa e un pezzo di giacca
un occhio che sembra una biglia, una treccia, un fiocco, una ciglia,
un padre, una voce, una figlia e una frase che tronca assomiglia
all’ultimo pezzo di chiglia arenato sulla sabbia ferita
Maddalusa è il nome del mare dentro cui sono finita
una lunga distesa di onde senza ombra di braccia o di scogli
oltre le onde, oltre gli scogli, fiero e senza fine,
avremmo trovato l’amore
bisognava solo aspettare alcuni giorni seduti in mezzo al mare
bambina ascoltavo mio padre pregare da sottocoperta,
io stavo con mamma e con gli altri, al centro della barca
Papà aveva la voce più forte della mia, io la seguivo aprire una
via dritta verso il sole, menomale, in tutto quel buio
io, fossi stata sola mi sarei probabilmente perduta
La notte che lo scafo è andato a fuoco ho maledetto la luce
mentre da dentro le onde pregando
la sua voce continuava il rituale
Distante da mio padre, non so più quanti passi sotto il mare,
ancora riuscivo a sentire
inala trattieni esala
inala trattieni esala
inala trattieni
trattieni
trattieni
trattieni
Talvolta sapete passano gli anni,
ci si scorda ciò che s’era messo in conto di finire
io m’ero messa in conto di capire il male
ed è per questo forse,
che in un’altra vita voglio una casa vista mare
L’autrice rivela e dichiara fatti e tragedie che spesso psicologicamente rifiutiamo e vogliamo evitare, per non essere sommersi dal dolore. I versi descrivono un punto della costa sud della Sicilia, sulla tratta migratoria mediterranea. La scrittrice approfondisce il legame tra il mare e la morte, descrive accuratamente il contesto esterno e l’interno dell’animo: le donne in nero sul ciglio delle case e i loro lamenti strazianti di madri rivolte al mare, perché ogni figlio morto ti rende in lacrime il sale?
LEUCOTEA
Le donne in nero sul ciglio delle case
di questo lungomare di lapidi e lampare
prefiche di un funerale la cui predica è un’omelia
di canto di cicale, di spigole tornate ad abitare il mare,
[…]continuano a pregare
e mentre sgranano il rosario
come un tirare di reti il pescatore
le sento intonare il coro d’un lamento,
il pianto d’ogni madre:
quanti se ne prende il mare
quanti se ne prende il mare
e cosa ci rende il mare
e come ci rende e come ci arrende il
Mare fammi chiglia e pancia di barca che viva da culla
mare fammi curva di onda e ora feconda fatta di braccia a unire altre braccia
[…]Mare fammi figlia e madre eterna
fammi fanghiglia fammi battigia fammi corallo fammi bonaccia e fammi coraggio
[…]fammi varco
oppure fammi resa
che il mio capo poggi in te la sua nuca,
il suo sonno
e la sua disperazione
E mentre cado, mare,
fammi gesto che sfili l’ago lasciato a spillare ogni infibulazione morale
e in una notte che non basterebbero dieci lune a dirne l’esodo
noi avremo milze divenute conchiglie
e intestini fatti barriere marine a ospitare patelle ed anguille
saremo il capitolo spurio della vera odissea,
e faremo del mare una cura, una farmacopea –
noi
Ma
tu, tu ascolta, mare:
se ogni figlio morto ti rende in lacrime il sale,
ascolta questa preghiera allattata al seno del maestrale
ascolta: sii buono mare, sii buono,
questa volta.
La poesia di Gloria Riggio dà voce ai drammi moderni. I testi sono composti da cortecce, croste, gusci, fanghiglia e schiuma bianca… da qui si genera la vera scrittura che, come per Cechov, nasce dalle piccole cose e non da azioni eroiche.
La poeta stupisce drammaticamente, coinvolge il lettore, lo fa appassionare, lo guida a riflettere sul degrado dell’umanità e a resistere…
L’autrice parte lieve, da un oggetto o da un elemento della natura, e ci fa impennare di fronte alla tragedia che sta in agguato e pervade la comunità e la famiglia.
Leucotea è una preghiera laica rivolta al mare, sulla diaspora mediterranea, personificata nella voce della dea bianca protettrice dei marinai, degli stranieri, dei naviganti e dei rifugiati. La fragilità individuale diviene sociale e si trasforma in un coro di denuncia e di solidarietà, che apre varchi e interrogativi inaspettati.
L’attualità è costellata di epidemie, con il rischio di infezioni psichiche, ma anche epifanie di primavera, perché le violenze intrafamiliari assumono con un rombo una potenza universale:
“Chiamateci rosalia, a Ninfa, a Virginia,
alla mamma mia, alla virgine maria, e alla loro bufera
Chiamatemi Rosalia come una poesia,
come una giustizia che si avvera”.
La poeta affronta coraggiosamente la tematica della frantumazione dell’identità e della scomposizione del corpo:
“una scarpa e un pezzo di giacca
un occhio che sembra una biglia, una treccia, un fiocco, una ciglia”
che viene smembrato fino alle ossa:
sono il costato rotto dell’intera terra
e sono seduta all’asta delle mie stesse ossa,
e mi si chiede quanto costa quel che resta.
Il dualismo essere a pezzi/essere interi indica l’esaurimento e le risorse psicologiche, la resilienzadell’essere umano, che può essere capace di risollevarsi e ricostituirsi, integrando ogni tassello di se stesso in un nuovo mosaico.
Rosalia è racconto individuale e collettivo sulla violenza sessuale domestica, di genere e sui minori, che si insinua brutalmente e si cela all’interno della famiglia.
Il testo è un manifesto sociale ed educativo sulle dinamiche di possesso, controllo ed oppressione dei più fragili; invita a nominare e definire la violenza, a riconoscerne la capillarità, i sintomi, le origini e a rivendicare la giustizia.
La fragilità psicologica è indotta dalla violenza dell’umanità ed evidenza proprio la fragilità della società, ma è proprio dalla fragilità che si riscopre il bisogno dell’altro e l’importanza dell’aspetto relazionale.
La poesia di Gloria Riggio è un grido lacerante di denuncia contro la sopraffazione, le ipocrisie, il perbenismo, l’egocentrismo e il rifiuto del diverso.
La poeta conduce a interrogarci: si può imparare il lessico dell’emarginato?
“Germano a malapena digrigna i denti
o quelli che gli sono rimasti,
c’è un patto non scritto tra lui e i passanti:
griderà più forte a chi non lo sente,
Germano non mente
e mantiene il patto, e più beve
e più breve è l’impatto con l’asfalto.
Germano ogni tanto succede che lo ascolto:
e ogni volta che parla non lo capisco.
Germano forse ha un dialetto che non ci hanno detto
che non ci hanno mai insegnato, forse esiste un lessico dell’emarginato[1]”.
Germano è un testo sulla marginalità sociale, che rende invisibili gli ultimi secondo una logica di gerarchia che ignora le diversità, decostruita dalla poeta che dà la parola ai soggetti fragili e denuncia la loro condizione di vita.
Il lessico dell’emarginato si può capire attraverso la capacità di stare in relazione con gli altri, tramite l’empatia, la conoscenza e la coscienza della fragilità, in un
PERIODO IPOTETICO
Questa poesia parla di resistenza e si chiama Periodo Ipotetico.
Perché diciamocelo, io cosa ne so di resistenza?
Niente.
Potrei parlare di resistenza
se vivessi in un posto in cui ci fosse qualcosa a cui resistere.
Ecco, per ipotesi, potrei parlare di resistenza
se vivessi in un posto in cui esistesse il fascismo
o sue forme sorelle, dentro e fuori le celle
[…]Potrei parlare di resistenza se vivessi un paese che fa i processi alle vittime,
se avessi sentito chiedere ad una donna stuprata le ragioni legittime
dello stupratore, se uscissi ogni giorno di casa con una mutria arrabbiata cucita sul viso, non sia mai il mio sorriso faccia da invito all’abuso
Potrei parlare di resistenza se la politica in Italia parlasse dal pulpito,
se riuscisse a far propaganda schierando il penultimo contro l’ultimo
[…]Potrei parlare di resistenza
se mio fratello avesse timore d’esser fermato una qualsiasi notte e perquisito,
se mio fratello dovesse aver timore nel prestare aiuto ad un amico, indifeso
se di colpo tutto ciò in cui hai sempre creduto
diventa tutto ciò che hai sempre frainteso
Saprei cos’è la resistenza
se lo stato laico brandisse il rosario,
se gli operai morissero in fabbrica per una miseria di salario,
se guardassimo a queste parole come a scalpi dentro un ossario
– con deferenza e inquietudine, sino a quando non ci voltiamo –
se fare memoria fosse un appuntamento ad orario, e dopo gli onori del caso sipario,
se tutto questo
non fosse immaginario.
Invece lo è: è tutto immaginario, ed è un tale sollievo –
come quella bella parola cui rende ogni anno grazie la nostra nazione:
è tutto immaginario, ed è proprio una liberazione.
L’autrice ci suggerisce una riflessione sul concetto di Resistenza in Italia oggi, sull’eredità e sull’attualizzazione della lezione della resistenza: riflettiamo sul concetto di libertà e sulle lotte per difenderla, promuoverla e perseguirla. L’obiettivo è di individuarne le violazioni, renderle coscienti e impedirle.
Tramite la poesia, Gloria Riggio considera tutto il male dell’animo umano nel mondo e lascia qualche varco di speranza per immaginare una liberazione, che forse avverrà.
[1] Riggio G., Germano.
[1] Ca muoviti: siciliano per su muoviti, in assonanza con il successivo commuoviti.
[1] Gloria Riggio (Agrigento, 2000) è la campionessa italiana di poetry slam 2023, la più giovane e la prima autrice donna nella storia nazionale. Studente di “Studi storici e filologico-letterari”, ha pubblicato raccolte di versi e sue poesie sono state tradotte in spagnolo, tedesco, inglese, francese e greco. È parte del Trento Poetry Slam e redattrice della rivista di letteratura contemporanea Inverso – Giornale di poesia. È stata ospite del programma di rai3 “Agorà”, nella puntata del 25 novembre, con una performance del suo testo “Avemarabieiplena”. Di recente ospite a Petrolio (rai3), alla redazione del Corriere della sera e su Vogue, in maggio ha rappresentato l’Italia alla Coppa del mondo di poetry slam di Parigi, arrivando in finale tra i primi quattro. Sì è esibita al Parlamento Europeo in occasione del 75esimo anniversario della fondazione del Consiglio d’Europa. A Parigi ha partecipato al Festival della canzone italiana esibendosi nel suo spettacolo di poesia performativa accompagnata da Giovanni Truppi, Cristina Donà, Pino Marino, Saverio Lanza, Cristiana Verardo. Nel novembre del 2022 nasce lo spettacolo di poesia performativa dal titolo “Periodi ipotetici”, sviluppatosi in varie forme e con diversi artisti che ha debuttato nel novembre di quell’anno per la stagione del Teatro di Meano ed è poi stato ospite a Riva del Garda, Pergine, Padova, Rimini, Roma, Firenze, Benevento, Aversa.