Tutto su Troppo
“Qualcuno mi dice che
quasi quasi volendo
le origini del troppo
sono proprio legate
alla scrittura, alla parola,
che non ne basta mai una”
(F. Balestra, Troppo)
Filippo Balestra (Genova, 1982) è scrittore, poeta e performer. Ha vinto il premio Franco Scatagliniper la videopoesia Un adesso immenso (2021) e si è esibito alla GAM di Torino e al Macro di Roma. L’autore fa parte del collettivo Genova Slam ed è coordinatore Liguria per la LIPS – Lega Italiana Poetry Slam.
Ha pubblicato Poesie Normali (2015), Guida indipendente alla città di Genova (2018), Diario Involontario (2022) e Troppo (2023). I suoi esperimenti linguistico/letterari sono la Conferenza sulla conferenza e la live writing performance Esistere non basta.
Balestra protrae le sue tipiche sperimentazioni linguistiche, anche nell’ultimo libro Troppo[1]: un’indagine che riguarda la “necessità di riflettere su un tema centrale delle nostre vite: il troppo” [2] (M. Miler).
L’idea del libro nasce dalla poesia di Balestra, che si intitola Troppi shampoo[3]
“Questa società si è concentrata
i laboratori si sono attrezzati
Gli scienziati si sono specializzati in
troppi shampoo
e io che volevo soltanto lavarmi
mi sento chiedere
se ce li ho ricci o ce li ho lisci
se ce li ho dritti o mossi quanto”.
Lo scrittore è guidato a scrivere da “un’impellenza necessaria portatami da un senso di responsabilità anche sociale e collettiva tipica di un vero e proprio pamphlet”, che si muove sull’umorismo e sul paradosso.
Attraverso la forma letteraria di una lettera all’editore, Balestra fa addentrare il lettore gradualmente nell’argomento. La lettera diventa una sorta di monologo, un flusso di libere associazioni, dalla punteggiatura essenziale e libera, che si sviluppano:
“mentre ci si lava i denti stare nel troppo, allacciarsi le scarpe, tagliare le verdure salutare alcune persone sempre stando dentro pensando immersi nel troppo poi venire qui a scrivere tutto”.
Il fluire nel testo di elementi della quotidianità è un’altra caratteristica dello stile di Balestra, che avvicina il tema del Troppo a ciascuno di noi calandolo all’interno della vita di tutti i giorni.
Il Troppo è descritto da diverse angolazioni, in ogni sua parte e controparte:
“ripetere la parola troppo fino all’eccesso passare attorno al troppo arrivandoci da sopra da sotto fare un giro attorno al troppo per misurarlo stabilirlo per filo e per segno”.
Balestra coglie le contraddizioni dell’esistenza, le dissonanze cognitive e gli spostamenti sull’asse distanza/vicinanza:
“riprodurre l’effetto del troppo descrivendolo e facendo dei giri attorno al troppo tipo circumnavigare il troppo per prendere le distanze dal troppo e le misure del troppo”
con ironia e con “un pizzico di troppo qb (dove qb sta per quanto basta anche se lo sappiamo che poi non basta mai)”.
L’indagine considera che il materiale di studio non manca mai:
“basta guardare un attimo in alto e lo vedi subito che c’è troppo, anche guardando in basso c’è troppo, dai satelliti gironzolanti sospesi là sopra fino ad arrivare in basso alle scarpe allacciate qui sotto ai nostri piedi, c’è troppo da tutte le parti, mi giro verso di qua c’è troppo e verso di là anche, ecco, sì, ecco, appunto, non possiamo lamentarci, il materiale di studio non manca mai, anzi”
e lo tratta alla stregua un saggio: parte dall’origine, riguarda l’entità e le comparazioni.
Le tematiche principali si dipanano in due argomenti, che ricorrono in parallelo: la problematica dei 400 maiali
“grazie all’industria alimentare che crea questa vita abnorme fatta di maiale appiccicati da inseminare velocemente per poi macellare per poi fare altre migliaia di maiali presto subito nel giro di poco”
e della Vodafone:
“La Vodafone, pensandoci bene, vive in costante stato di microcrisi per ogni volta che qualcuno come me se ne va passa a Wind. Forse più che di Stoccolma la Vodafone è più sindrome dell’abbandono, povera Vodafone”.
La Vodafone, con il suo motore disturbante, travalica i confini individuali e diventa una grande metafora dello smarrimento sociale: “non so quanti sono i giga illimitati di cui ho bisogno”. Le telefonate tempestano la quotidianità, sono fonte di stimoli continui e diventano ironicamente come quelle di un familiare, per l’assiduità della frequenza.
Il lettore si ritrova a fronteggiare, dunque, problematiche della collettività, che creano disagio e sgomento, anche se in molti siamo assuefatti a vivere nel Troppo:
“Abbiamo i maiali, mi dice saltando festoso, abbiamo i maiali, mi dicono, andiamo a vedere i maiali? E io, che sono abituato a stare su lande diverse, lande di mare impervio di costa rocciosa scomoda con sciabordii di olio di oliva che si infrangono sempre sulle nostre facce di marinai con le piante di basilico su per il naso di barche e gozzi e cantiere navali transoceanici liguri, io, io sono sempre curioso di vedere certi tipi di animali, e allora con entusiasmo, subito dietro ai bambini, ho detto sì certo son curioso andiamo a vedere i maiali andiamo o non vedo l’ora” […]
“Avvicinandoci a questo edificio, scricchiolando incerti passi notturni sul selciato, ho cominciato a sentire un accorparsi di respiri, quelli, sì, quasi umani, sospiri emanavano dal grande corpo di un qualcosa qualcuno che stava al di là del muro, e una volta arrivati al muro, attraverso una finestrella industrialmente quadrata, aprendo uno sportello ci siamo affacciati all’interno dello stanzone e il nostro amico con la torcia del telefono ha illuminato il posto, ha illuminato il corpo composto amorfo di un mare di maiali”.
Alcune immagini poetiche di Balestra, che infatti è anche poeta, si stagliano dal testo all’improvviso, come
“lande di mare impervio di costa rocciosa scomoda con sciabordii di olio di oliva che si infrangono sempre sulle nostre facce di marinai”
e “scricchiolando incerti passi notturni sul selciato”.
La poesia porta un conforto nel dirompere del malessere, che arriva come un pugno inaspettato:
“hanno cominciato a reagire con nuovi ritmi di respiri che si sono fatti tentennare di grugniti in un’onda incontrollata partita dai maiali più vicini fino ad arrivare a farsi sentire dai maiali più lontani, grugniti come eco di canto di lamento di un ingiustizia blindata in questo capannone, che è vita normale per chi ci nasce dentro”.
L’umorismo dell’autore è necessario per sostenere l’inquietudine, lo sconforto e la disillusione che scaturiscono dalla lettura:
“la sento dritta nel cuore la parola troppo mi viene da dedicarle quasi adesso una canzone d’amore che parla di noi due al tramonto con all’improvviso 400 maiali e la Vodafone al telefono”.
La narrazione si sviluppa attraverso sperimentazioni linguistiche, giochi con le parole:
“per fortuna questo non è un romanzo, Milo, questo è evidentemente un pamphlet che parla del troppo e parlando di troppo parla anche di altro, spesso di ben altro, a volte addirittura di tutt’altro”
e scherzi seri con il lettore:
“forse il problema sta nel Basta poco che abbiamo letto male, mal interpretato, quando in realtà dovremmo dire ad alta voce basta troppo, ma che sia un basta sdegnato imperativo, ad alta voce, non se ne può più del troppo, tutto questo è troppo”.
Balestra utilizza interventi paradossali, in riferimento al teatro dell’assurdo, e descrive le complessità delle situazioni, quando si parte con un intento ma si giunge ad altro:
“lo volevamo distruggere il troppo e invece eccoci che siamo qui a riprodurlo, questo è un classico, il classico che si ripete, è un classico intramontabile”.
Il Troppo è ovunque e accresce continuamente:
“È il troppo stesso che ci costringe in contrapposizione, ci costringe a muoverci spostarci di continuo espanderci per prendere le distanze dal troppo che avanza”.
Possiamo, dunque
“arrivare al troppo passando da tutte le direzioni possibili, un troppo centrale e centrifugo e centripeto, diciamo, in cui confluiscono diverse idee di forme di eccesso di troppo fino allo sfinimento al collasso strutturale di ogni idea di ogni senso di ogni modo di stare a girare intorno al troppo e alla parola troppo”.
Il Troppo conquista lo spazio e il tempo, cresce inarrestabile come le unghie e indica lo scorrere senza sosta dell’esistenza, al di là della nostra volontà.
Adesso al lettore girerà la testa o proverà un senso di nausea, ma è proprio questo lo scopo di Balestra: far vacillare i punti di riferimento e introdurre nuove coordinate spazio-temporali. Il Troppo dilaga da ogni parte, assume la “forma di idea di qualcosa che sovrasta e sorvola”, rappresenta simbolicamente il malessere della società, che non ci lascia ma, anzi, rispetto al quale “ci siamo dentro”.
Per Lacan[1] il disagio della civiltà è legato alla mania: si nega l’esperienza della perdita attraverso un’accelerazione del ritmo dell’esistenza, che comporta l’iperattività, e sostituendo l’oggetto perduto con altri oggetti, che lo rimpiazzano in una catena infinita di altri oggetti, tipica del capitalismo.
Il capitalista è legato alla maniacalità: l’iperattività e il rigetto del lutto riguardano la negazione del trauma della perdita. La maniacalità comporta un’inclinazione negazionista: “il ricambio incessante degli oggetti agisce come un analgesico di fronte al dolore di esistere e al trauma della perdita”[2] (M. Recalcati, 2002).
Per rendere una separazione non avvenuta, dunque, c’è chi sostituisce un oggetto con un altro, e Balestra propone un metaforico centro commerciale antropomorfo, che contamina l’uomo:
“Centro commerciale pulviscolare nell’aria che entra dentro ai corpi e tu te ne accorgi, dici, mi sta entrando dentro, c’è un centro commerciale nell’aria e quell’aria la sto respirando, ormai è troppo tardi, hai un centro commerciale dentro, dal costato agli arti superiori inferiori tutti, fino alla punta delle unghie, che crescono sempre anche loro, anche le unghie, si espandono, fanno parte del meccanismo pure loro in qualche modo, anche loro nel senso di centro commerciale ovunque, anche fuori, un centro commerciale diffuso capillare sparpagliato ovunque”.
In questo girovagare e vagare, dove ci vuol condurre lo scrittore?
“qui si vuole arrivare a un nucleo dispendioso di senso, ha bisogno, questo studio, questo approfondimento, di una struttura di sforzo tentacolare che arrivi a delineare capillarmente una definitiva visione del troppo in sé, visione faticosissima da ottenere e poi da mantenere perché il troppo si espande, e noi dobbiamo espanderci con esso non c’è passo che si fa che non sia irreversibile furibondo percorso di avvicinamento e allineamento alla sfiancante idea di iper produttività che si ricrea nell’analisi rivolta al troppo stesso”.
Grattando le frasi, nascoste dietro le parole, emergono le problematiche dell’attualità: c’è da scavare per reperire i resti della nostra umanità.
Nel panorama narrativo contemporaneo del culto dell’incertezza identitaria (siamo tutti troppocomplessi, intelligenti, sensibili etc.) ben si inserisce questo pamphlet e possiamo domandarci come la questione del Troppo modifica le relazioni.
Nel troppo intorno a noi, l’essere umano rischia di perdersi, di perdere di vista ciò che è veramente importante e di perdere il valore della continuità dei legami affettivi.
L’autore premette che non hanno trovato il senso di questa ricerca, che è terminabile o interminabile?
“In ogni caso non abbiamo trovato il senso, questo lo diciamo fin dall’inizio, ci vuole del coraggio per pubblicare questo testo che soltanto a un certo punto, in mezzo a plurimi tentennamenti, soltanto a un certo punto sembra poter dire qualcosa di forte”.
Le origini del troppo ci conducono a una riflessione sulla parola, ché “non ne basta mai una”:
“mi dicono che le origini del troppo sono molto lontane, qualcuno mi dice che quasi quasi volendo le origini del troppo sono proprio legate alla scrittura, alla parola, che non ne basta mai una, bisogna sempre aggiungerne ancora, e ancora, e che per arrivare a comprendere una cosa bisogna aggiungere un’altra parola e ancora una”.
L’indagine sul concetto di troppo si lega alla scrittura e potrebbe essere non terminabile, così come la terapia?
“Freud si domandava se esistesse o meno una fine naturale dell’analisi. Ciò dovrebbe corrispondere al momento in cui paziente e analista ritengono di aver raggiunto, ciascuno dal suo punto di vista, la meta prefissata: cioè il primo il benessere psicologico personale e il secondo la convinzione di aver portato il paziente ad una condizione che lo garantisca dal rinnovarsi dei processi patologici in questione” […] “Sandler (1991) sostiene che in esso vengono trattati o prefigurati un gran numero di punti attualmente centrali nella ricerca psicoanalitica, come l’importanza relativa delle interpretazioni nell’hic et nunc rispetto a quelle riguardanti la ricostruzione del passato, il ruolo dell’insight nel cambiamento, la natura dell’effetto terapeutico ed il ruolo delle caratteristiche (e dei limiti) individuali sia del paziente che dell’analista, riguardo l’esito del trattamento”[3].
Possiamo restare centrati nel presente e “decidere attimo per attimo a cosa rinunciare per potersi concentrare sull’unica cosa che si sta perseguendo che è un’indagine in corso” e
“respirare soltanto e pensare al troppo, privarsi di tutto a parte il respiro e l’ossigeno necessario concentrarsi sul minimo la rivoluzione sta tutta nel minimo, il minimo che possiamo fare ecco quale può essere la chiave la formula utile soverchiante rivoluzionaria che si faccia da arma definitiva per abbattere il troppo si deve passare dal minimo e concentrarsi sul minimo rimanere sul minimo valorizzandolo e magari addirittura mi viene in mente il minimo che possiamo fare mi viene da dire di non farlo. non fare neanche il minimo. Ci devo pensare”.
L’autore fornisce una risposta: “la rivoluzione sta tutta nel minimo”, ma cambia improvvisamente registro stilistico e contenuto: offre al lettore delle considerazioni ragionevoli, poi dopo delle contraddizioni e infine spiazza con l’umorismo.
Balestra guida il lettore in un luogo, che diventa un altro e ancora un altro, come una scenografia teatrale che cambia continuamente scena. Sta al lettore trovare il proprio percorso, che diviene simile a un processo terapeutico, e domandarsi “chi sono? Chi voglio diventare?”. Lo scrittore suggerisce, evoca delle situazioni, accompagna, ma poi spetta ad ognuno affrontare da solo il proprio cammino.
Il poeta, in conclusione, costruisce il Minimalismo del paradosso:
“questo è un minimalismo estenuantemente sottrattivo, lo hanno già fatto, il minimalismo, in letteratura, è vero, ma questo è un minimalismo strabordante, si chiama così ma sono anche indeciso e devo dire, se chiamarlo anche minimalismo sfiancante, minimalismo eccessivo, o martellante, esasperatamente minuzioso minimalismo ossessivo, un minimalismo che non fa altro che togliere tutto, anche la speranza toglie, toglie tutto e non smette mai di togliere ma sovrapponendo, aggiungendo, andando al contrario della procedura precedentemente stabilita, è quindi anche un minimalismo che crescendo va a ritroso, minimalismo del paradosso che si basa sul girare attorno all’idea, in questo caso l’idea del troppo, Milo, girare attorno all’idea per costruire l’idea, un’idea che prima non c’era o era vaga, e allora, come fanno certi predatori attorno alla preda, andiamo in giro annusando l’idea della preda, per perimetrare”.
Balestra apre e intraprende un percorso riflessivo che contempla la possibilità di non raggiungere una definizione esatta, ma di “perimetrare la cosa in modo da avere un’idea”. “Girare attorno all’idea per costruire l’idea”: questo assunto conduce all’interiorizzazione di processi che attivano una motivazione culturale e sociale.
La lettura produce un subbuglio interiore, una spinta a considerare aspetti dissonanti della società, le controparti, e l’effetto che fa.
L’autore non costituisce un modello preciso, perché l’apprendimento e la consapevolezza si formano tramite un’indagine che, come la psicoterapia, non è immediata ma richiede un tempo interno di sviluppo.
Non a caso il libro non ha una conclusione classica ma lascia il lettore in sospeso, alle prese con sperimentazioni che ricordano quelle di Rodari, di Calvino e gli “esercizi di stile” di Queneau.
Il pamphlet termina senza punteggiatura, senza un finale:
“C’è un troppo che si espande passando dal famoso bacino lessicale conquista territori con le parole, li trasforma in mercati di campi semantici nonostante si stesse già bene, forse, a quanto pare, con quelle poche parole iniziali, eravamo già a posto così, eravamo, e invece”
perché Balestra altera le regole del linguaggio e rompe gli schemi.
“Come dice il poeta, il gioco serve per riconoscere le frasi fatte, e a queste prepararci a contrapporre le frasi da fare e da rifare e da rifare ancora sempre nuove[4]” (R. Francabandera, 2024).
Come in un rapporto affettivo ci riconosciamo attraverso lo sguardo dell’altro, così nella scrittura la relazione tra le parole genera il senso. Le frasi si uniscono per formare un contenuto e scrivere diventa una modalità relazionale che costruisce legami e conoscenza. Se facciamo una similitudine con il costruzionismo: “dalle teorie costruttiviste in psicologia prendiamo la visione dell’apprendimento come una ricostruzione, piuttosto che come una trasmissione di conoscenze[5]” (S. Papert, 1989).
Il libro di Balestra si fa in base a delle co-costruzioni continue in rapporto al dipanarsi del testo e a ciò che suscita in chi legge, cioè all’esperienza della lettura che il soggetto sperimenta. Balestra propone degli strumenti nuovi di comprensione e sta al lettore decidere se continuare la ricerca, cosa fare del proprio disagio e come collocarsi nella società.
[1] Recalcati M. Lutto e malinconia, lezioni
[2] Recalcati M. (2002) La luce delle stelle morte.
[3] Carrara S., Zanda G., “Sul saggio freudiano Analisi terminabile e interminabile”, www.rivistapsicologianalitica.it.
[4] Francabandera R. (2024) Fra surreale e dada, l’astrazione ricorsiva nella Conferenza sulla conferenza di Filippo Balestra https://www.paneacquaculture.net/
[5] Papert S, (1989) Constructionism: A New Opportunity for Elementary Science Education, Cambridge.
[1] Balestra F. (2023) Troppo, Tipografia Helvetica. Per comprare il libro, cliccare qui.
[2] Balestra F. (2023) Troppo, in Introduzione, Tipografia Helvetica, Capolago.
[3] Balestra F. (2015) Poesie normali. Miraggi Edizioni, Torino.