LE DIMENSIONI DELLA POESIA
“Sconosciuto che passi!
Tu non sai con che desiderio ti guardo,
Devi essere colui che cercavo,
o colei che cercavo (mi arriva come un sogno),
sicuramente ho vissuto con te
in qualche luogo una vita di gioia.
Tutto ritorna, fluido, affettuoso, casto, maturo,
mentre passiamo veloci uno vicino all’altro […]”
(W. Whitman, A uno sconosciuto)
Daniele Landi nasce a Borgo San Lorenzo (1984). Laureando anziano nella facoltà di Psicologia con indirizzo clinico, grazie a una passione innata per poesia e teatro, partecipa a numerosi concorsi letterari, trovando riscontri positivi.
Consegue il diploma da libraio presso l’associazione Librai in corso e un master da operatore Mindfulness. Insomma… un moderno Cyrano, “che fu tutto e lo fu invano”.
Il suo romanzo d’esordio si intitola Le distanze della solitudine.
La poesia di Whitman A uno sconosciuto è presente nel libro come citazione iniziale e racchiude metaforicamente nei suoi versi ciò che l’autore sviluppa nel romanzo, intrecciando le sue passioni. Lo scrittore suggella anche il legame con la psicologia e racconta che “questo libro nasce una notte di tanto tempo fa, nasce in un sogno. Un lungo viaggio in cui ho conosciuto Zeta e i suoi strani personaggi[1]” (D. Landi, 2024).
I protagonisti esprimono delle problematiche psicologiche e somatiche e si muovono in base a difficoltà o risorse relazionali. “Zeta è un luogo dimenticato dal tempo, dove regna sovrana una silenziosa solitudine. Eppure sembra risvegliarsi all’arrivo in stazione di sei viandanti dalle vite spezzate: una ragazzina imprigionata dalle mura di una fortezza che lei stessa ha edificato, un uomo che riversa i propri sentimenti su una tastiera illuminata dal chiarore della luna, un’attrice di talento che non riesce più a sostenere lo sguardo del suo riflesso allo specchio, un artificiere di sentimenti incapace di disinnescare i propri, una malata terminale con gli occhi puntati sull’orizzonte e un uomo divenuto idea celato da una maschera di numeri” (D. Landi).
La relazione è il nucleo centrale del romanzo, intorno al quale ruotano tutti, e crea distanza o vicinanza: “possono i ricordi insegnare loro che la propria solitudine non è poi così distante da quella di chi siede accanto? E possono farlo prima che il treno raggiunga il Capolinea?” (D. Landi).
L’autore, inoltre, che è anche poeta, mette in versi i personaggi del libro:
Amal
Tenero mucchietto d’ossa deserto,
oggi fugge a svanire nel silenzio
la lotta del fiore nostro più bello.
Perdona quel menzognero lagrimar
della bestia che da lungi t’uccise
con candide mani di valor prive.
Riposa sotto la terra leggera
accanto agl’avi d’antico lignaggio,
Dea vergine d’una patria fiera
che attende lo sbocciar di una promessa.
Che il compassionevole abbraccio tuo
Cinga di speranza il nostro domani.
Alcune tematiche sviluppate nel romanzo riguardano i poli speranza/disperazione, attesa/delusione, fine/principio e pongono al lettore dei quesiti esistenziali.
Nel nostro percorso di ricerca, partiamo dalla
Attesa
La solitudine beata osservo
di questo tramonto nel meriggio.
Odo cantar la natura morente
Tra pertugi di mattoni ammuffiti
E il crepitare di prati strinati.
Il plumbeo volto d’un cielo assente
schiuse pensieri che l’alma abiura:
venne sera, consolante paura.
La natura è un elemento di conforto, ma sembra sfiorire e decadere insieme all’avanzare delle paure, mentre viene percorso
Autunno dell’Uomo
Nascosto dentro un cassetto di foglie
solevo spiare la vita invano.
Ad un palmo dagli occhi svanivano
lontano grida d’antica dimora,
tumuli muti di canti sepolti.
Il ricordo di quel vento sottile,
mosso dal lieve soffio di speranza
di un gigante muto, braccia spezzate,
portava il pensiero oltre i mortali
lidi ove approdare mi fu cagione.
Libertà!
Gridava un’eco perduta,
figlia di notti guidate dal fato,
sorella di un astro senza lucore,
madre di un vespro nel tempio deserto.
In quel tramonto d’autunno io gridai
la vile resa dell’Uomo, sepolto
dal gelido manto dell’abbandono.
I personaggi non vogliono arrendersi a una prigionia interiore o fisica, quando il corpo diviene una gabbia, e tendono verso una
Liberazione
La remota speranza al vento affido,
all’infinito suo vagar sì lieto,
al carezzare del soffio quieto
ch’adombra lento il silenzioso grido.
Dalla deserta prigione urlo, strido:
l’orrore vuoto d’un corpo incompleto,
il ricordo arso sull’orlo d’un greto,
spoglio letto che agogna il suo lido.
Il cor mio impavido staccia ancora
il fluir del nulla a cavarne sangue,
nel conforto d’un requiem sopito.
Una mano sfiora il volto contrito,
carezza ove il mortal respiro langue
e sfiorir l’eterno buio colora.
Le descrizioni sono curate e approfondite, frutto di un lavoro di indagine che costituisce una struttura complessa e avvincente, in cui il lettore può perdersi e conoscere le storie narrate. Le conseguenze del dolore sono espresse nelle varie forme, tramite le diversità dei personaggi e i loro meccanismi di difesa, all’interno di un processo che volge a un cambiamento.
Marilù
Or vagava tra lustri mai sfioriti
lo sguardo mio di rubino infranto,
a quella terra dalla quale fuggir
mi recò maggior cagione che morte.
Quel debito scolpito sulla pelle
non potrà risarcir, seppur pagato
dalle anime dei fratelli svaniti
nella buia notte di grida e strazio.
Schiava.
Fiera di un destino inviso,
delle origini di questi palpiti,
delle mani nell’ebano scolpite.
Qui, dal ponte di Marilù attendo
lo sbocciare di una primula viola
mentre tremo nel niveo sostegno
di una gentile carezza straniera.
Vergine l’eco del canto approda
ove germogliar non è condanna,
ove la terra, Madre premurosa,
accoglie infine i passi miei
Liberi.
Non si sfugge dalla sofferenza ma possiamo avvicinarci ad essa con occhi diversi, non temerla ma accettarla come parte dell’esistenza, per renderla transitoria e non cronica, alla ricerca di passi “liberi”.
I versi tremo nel niveo sostegno di una gentile carezza straniera ricordano, restando in ambito di teatro, quelli di Tennessee Williams: “chiunque lei sia, ho sempre confidato nella bontà degli sconosciuti”[2]. Quale è il confine tra alterità e somiglianza, schiavitù e libertà, vita e morte? “Cosa accade dentro di noi quando la malattia e la morte strappano dalle nostre braccia persone che davano senso alla nostra vita e al nostro mondo? Quando siamo costretti a perdere chi abbiamo tanto amato? Ma anche quando gli ideali per i quali abbiamo vissuto si infrangono irreversibilmente, o quando dobbiamo lasciare una terra o una casa che avevano accolto la nostra vita e alle quali eravamo profondamente legati?[3]” (M. Recalcati, 2022). “Morire o rinascere?”
Pensiero ebbro
Morire o rinascere.
Davanti a un boccale di birra
ascolto la vita a suonare armonie
d’un blues di tempi perduti.
Nella fatiscenza ad un buio locale
attendo una luce fioca attesa:
viatico che porta al principio,
teatro di amati buffoni infelici.
Una corsa immobile verso il principio.
Sedersi sotto una sedia di nuvole,
stanco,
ristorato da un finale ignoto.
Infine tu, pietra leggerissima,
ch’ora m’affondi, ora m’afferri
in questa notte di pensieri ebbri,
ove l’unica salvezza mia
è la barba incolta
di un vecchio maestro sepolto.
Possiamo considerare il significato di vivere da vivi e non simbolicamente come morti che non muoiono[1]: ovvero appassionarsi alle piccole cose, valorizzare ogni attimo e chiedere aiuto nelle difficoltà. Il rischio psicologico è quello di esistere da morti, cioè all’interno di condizioni affettive e sociali inumane, rispetto alle quali la morte appare un sollievo, la fine di ogni tormento: “proteggete il riposo dalle stanche giornate, soldati miei sbagliati”[2].
È possibile mantenere una speranza, l’attesa di un domani migliore che forse arriverà? Se paragoniamo l’esistenza al teatro possiamo scegliere la nostra parte, ciò che vogliamo rappresentare all’interno di ruoli mutevoli e vitali e non di rigide prigionie senza scampo. Il cambiamento è un antidoto alla perdita di fiducia in sé e nell’altro; può essere sostenuto da un percorso terapeutico ma anche da esperienze legate alla poesia e al teatro, utili per esprimere le emozioni, mettersi nei panni dell’altro e accoglierlo nella sua unicità.
La Poesia terapia “è una pratica che prevede l’uso intenzionale della poesia e di altre forme letterarie per la guarigione e la crescita personale[3]”.
Grazie alla scrittura è possibile liberarsi dal proprio dramma in maniera catartica, dando vita ai personaggi interiori: gli abitanti del libro “esistono, sono piccoli frammenti di me che si muovono in un mondo le cui strade ho avuto il privilegio di calpestare” (D. Landi). I protagonisti seguono il loro sviluppo come Sei personaggi in cerca d’autore, alla ricerca di una vita autentica.
La Teatroterapia insegna che “è importante diventare protagonisti delle proprie storie anziché restarne succubi, e quindi comportarsi responsabilmente, cioè assumersi le proprie scelte esistenziali. Le proprie storie sono fatte di comportamenti: la scelta di gesti, di parole e di toni di voce compone vere e proprie architetture”. “Essere responsabili significa anche realizzare che quanto si fa ha comunque un prezzo: decidere viene dal latino de-caedo, taglio via da, in quanto ogni decisione equivale alla rinuncia a tutto ciò che si lascia da parte. Ma proprio questa rinuncia, come nella regia teatrale, ci rende completamente artefici della nostra esistenza[4] (P. Quattrini)”.
Il libro si conclude con questi versi di Whitman
“Non devo parlarti,
devo pensare a te quando siedo in disparte
o mi sveglio di notte, tutto solo.
Devo aspettare, perché t’incontrerò di nuovo,
non ho dubbi.
Devo vedere come non perderti più”
che sembrano indicare la vicinanza di anime, che può avvenire sempre, anche tra sconosciuti.
Per Daniele Landi questo romanzo “è anche e soprattutto condivisione, assenza di solitudine” perché l’arte crea empatia e un legame con il lettore.
La vicinanza nel dolore riduce le distanze della solitudine ed emergere la necessità di un’esistenza vissuta pienamente, con una rielaborazione delle perdite.
“Noi tutti siamo viaggiatori senza possibilità di ritorno” […] “ ma è, appunto, sullo sfondo di questa impossibilità del ritorno che diviene possibile compiere il nostro viaggio di sola andata[5]”. In questo caso “è il nostro passato che ci visita in modo sorprendente offrendoci ogni volta la possibilità di ripartire”, e ciò “contiene un inaudita promessa per il nostro avvenire” ed “è la forma essenziale che può assumersi il compito dell’ereditare”: “qualcosa che non è più fra noi non smette di illuminare la nostra vita e il suo divenire” (M. Recalcati, 2022).
La condivisione dei sentimenti crea un senso di appartenenza perché sono gli stessi per tutti, superano le differenze culturali e sociali, si tramandano nelle generazioni e proseguono oltre, in un ciclo continuo di morte e rinascita.
“Nella notte che avvolse il passato riecheggiò, lontano, il vagito di un neonato” (D. Landi, 2024).
Per concludere possiamo ritenere la nostalgia come una forma di gratitudine “che non resta imprigionata nel rimpianto, ma diviene una potente risorsa psichica di rinnovamento della vita”: “sono grato ai miei innumerevoli morti per quel che ho ricevuto; lo porto con me non come una reliquia da ossequiare ma come qualcosa che attende ancora la sua realizzazione, come un vento di primavera, un vento australe che soffia da sud” (M. Recalcati, 2022).
[1] I morti non muoiono, film di Jarmusch (2019).
[2] Landi D., Amato caos.
[3] Poetry Therapy: cos’è e come viene applicata. Intervista a Dome Bulfaro, promotore della poetry therapy in Italia.https://www.buonenotizie.it/
[4] https://www.igf-gestalt.it/2019/01/28/gestalt-e-teatro-con-paolo-quattrini/
[5] Recalcati M. (2022) La luce delle stelle morte, Feltrinelli, Milano.
[1] Landi D., (2024) Le distanze della solitudine, in Ringraziamenti, bookabook.
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https://www.mondadoristore.it/Le-distanze-della-solitudine-Daniele-Landi/eai979125599123/
[2] Williams T. (1947) Un tram che si chiama desiderio.
[3] Recalcati M. (2022) La luce delle stelle morte, Feltrinelli, Milano.